Ogni anno, il 16 ottobre, si celebra la Giornata Mondiale dell’Alimentazione per iniziativa della Fao. In genere questa data suscita un interesse abbastanza modesto che invece questa volta, dopo che i primi mesi dell’anno sono stati segnati da una forte attenzione alla tematica della crisi agricola mondiale, ci si aspettava fosse in ripresa. Al contrario, l’imperversare della bufera finanziaria ha addirittura fatto passare in secondo piano la tematica alimentare con l’eccezione di un aspetto abbastanza particolare se considerato in maniera avulsa dal contesto. Molti commenti si sono concentrati sull’elevato rischio di recessione mondiale che determinerebbe una contrazione della domanda di beni in genere, quindi anche di alimenti, con conseguenze sull’intera filiera alimentare. A riprova, si citano i dati della contrazione dei consumi nei paesi ricchi come, ad esempio, l’Italia. L’arditezza della costruzione stupisce e scoraggia ogni tentativo di rimettere ordine nelle cose, eppure vogliamo provarci. I consumi alimentari nei paesi ricchi sono in frenata già da qualche mese, il che lascia intendere che l’esplosione della crisi finanziaria non sia il solo colpevole. Se anche la flessione trovasse conferma, il sopraggiungere della recessione, come la storia insegna, potrebbe far riprendere questa categoria che normalmente si sviluppa in maniera anticiclica, nel senso che nei momenti di difficoltà gli altri consumi possono essere ridotti, ma non così l’alimentazione, che assicura la sopravvivenza degli individui. Se poi dovessimo prendere sul serio i consigli proposti dai media per “resistere” alla crisi, ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, si va dal coltivare gli ortaggi sul balcone al far la spesa presso i singoli produttori, dal vagheggiare conserve domestiche al suggerire preparazioni che per valorizzare cibi poveri non badano a spese sugli ingredienti da aggiungere. Siamo alla storia delle brioches che Maria Antonietta, in perfetta buona fede ma con totale mancanza di senso della realtà, voleva somministrare alla folla affamata di Parigi che richiedeva pane.



In genere, per tornare alla Giornata mondiale, ci si chiede se davvero ne basti una sola o se non sarebbe meglio occuparsene tutti i giorni, una considerazione al limite della provocazione, che questa volta viene smentita in apparenza dai fatti: la Giornata, nel nostro paese, inizia il 16 ottobre e ufficialmente dura fino al 14 dicembre. In un paio di mesi il programma ufficiale elenca molte decine di avvenimenti illustrati in quasi un centinaio di pagine. Ma la domanda rimane sempre la stessa: e poi? Già il secondo giorno l’interesse mediatico si è visibilmente ridotto, dopo aver frettolosamente riportato la sintesi del discorso del direttore generale della Fao, Jacques Diouf che richiamava gli elementi di fondo della situazione alimentare..



Negli scorsi mesi, secondo le stime, quasi un centinaio di milioni di esseri umani è stato sospinto indietro nei suoi livelli di consumo verso quella fame che confidava di avere faticosamente sconfitta mentre altri 850 milioni vedono allontanarsi l’obiettivo della sicurezza alimentare. In questo contesto, servono a poco le Giornate se si limitano a discorsi che ruotano attorno all’immancabile tema a sviluppo obbligato. Serve ancor meno preoccuparsi delle importazioni dalla Cina o delle esportazioni dei nostri prodotti Dop o del calo delle vendite nei negozi, ma non nei discount. Chi può ragionevolmente raccontare queste cosucce a chi ha fame? Di recente, in una grande assise internazionale sui problemi dell’acqua e del cibo, dopo che Ingo Potrykus, il genetista svizzero che ha sviluppato un riso, il Golden rice, che potrebbe salvare ogni anno 40.000 vite umane, aveva esposto il significato della sua ricerca, gli è stato chiesto perché accanirsi tanto a studiare un riso naturalmente ricco di vitamina A e non cercare, invece, di far sì che anche quei popoli che si cibano normalmente (solo) di riso usino la pasta, perché è…. tanto più buona. Occorre imparare a distinguere fra ciò che è davvero importante e ciò che costituisce un mero tributo all’effimero in paesi ricchi.



Il nocciolo della questione è molto più duro da affrontare. Molti sembrano non capire che al mondo vi sarebbe spazio e cibo per tutti se si riuscisse a diffondere con coerenza, costanza e rispetto delle altrui esigenze un insieme di tecniche che permettesse ai popoli dei paesi della fame di coltivare quei prodotti di cui hanno bisogno, anche nei contesti più ostili. Le difficoltà ambientali, la presenza di avversità biologiche, come malattie, parassiti e predatori naturali, o abiotiche, come la carenza d’acqua, le ricorrenti siccità o la salinità dei terreni, possono essere affrontate, in parte con strumenti già disponibili, in parte potenziando la ricerca scientifica e le sue applicazioni. Si calcola che per il 2050, tenendo conto della dinamica demografica e di quella dei consumi individuali nei paesi in via di sviluppo, occorra raddoppiare la produzione mondiale di prodotti alimentari, un obiettivo che sembra irraggiungibile, ma che potrebbe essere conseguito ragionevolmente se vi fosse un vero impegno di tutto il mondo, rompendo schemi vecchi e contrapposizioni superate, agendo sui processi di spontanea democratizzazione dei paesi in maggiore difficoltà, favorendo grandi progetti di diffusione del progresso scientifico e tecnologico. Se la Giornata Mondiale servisse a far comprendere queste cose, ne basterebbe anche una sola, altrimenti un anno intero sarebbe sempre troppo poco.

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