Viviamo in un periodo in cui sembra che il rapporto medico-paziente non abbia più nulla da dire e in cui un esame radiologico pare abbia più valore di cento visite mediche; in un contesto in cui la biotecnologia è esasperata, e la traiettoria terapeutica tradizionale è stravolta a causa di una diagnosi sempre più affidata alla genomica, e di una terapia con farmaci indirizzati al difetto molecolare che sta alla base della malattia, in cui paziente è di fatto estromesso dal percorso di diagnosi e di cura. A fare le spese di questa tendenza sono soprattutto gli anziani, i malati cronici, gli inguaribili, ma in realtà tutti soffriamo di una medicina che è sempre più “sanità” e sempre meno “clinica”.
Nel discorso di giovedì scorso per il decennale della Enciclica Fides et Ratio, il Santo Padre aveva già messo in guardia dai pericoli della biomedicina esasperata, parlando della ricerca: il dato non è creato dal ricercatore, è offerto dalla realtà stessa e può essere riconosciuto già presente nella natura. Il ricercatore ha il compito di essere leale con il dato e di mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede (per chi ce l’ha) esercitano nei confronti della scienza perché permanga al servizio dell’uomo. I due pericoli che il Papa segnala, quello del facile guadagno e quello della tentazione di manipolare la realtà, sono ben presenti a chiunque si occupi di ricerca in campo biomedico. Oggi, con il discorso alla Società Italiana di Chirurgia, allarga la prospettiva al rapporto medico-paziente, e alla relazione del tutto particolare che si instaura tra chi cura e chi è curato. In questo rapporto basato sulla fiducia, sulla stima reciproca e sulla condivisione degli obiettivi realistici da perseguire, si può definire il programma di cura e gli strumenti da utilizzare, da quelli più arditi e “tecnologici” a quelli ordinari e “low-tech”. Il medico stesso è il sostegno migliore al paziente con la sua presenza, il suo modo di comunicare e la sua propria umanità. In effetti il rapporto medico-paziente è un incontro tra due persone che, con ruoli e compiti diversi, condividono il proprio destino. Il compito fondamentale di chi cura è sostenere la speranza del paziente, nel rispetto della verità dei fatti.
Questa posizione è più umana e più rispettosa della realtà rispetto a quella che afferma l’autonomia e l’autodeterminazione del paziente, posizione sostenuta da importanti scienziati e illustri clinici, forse però ormai lontani dalla realtà clinica. È una concezione, questa, che riduce la relazione di cura, cioè il rapporto tra medico e paziente, ad un livello meramente contrattualistico e rischia di indurre, come già accaduto in diversi paesi, atteggiamenti rinunciatari da parte dei professionisti e dei sistemi sanitari nei confronti soprattutto di malati più deboli e fragili. Espressione di questa cultura in cui l’uomo diventa arbitro della propria e altrui vita è il testamento biologico, o le direttive anticipate di trattamento, che vengono attualmente discusse soprattutto in relazione al caso di Eluana Englaro. Pur non citandolo espressamente, il Santo Padre rigetta la logica del testamento biologico, e sostiene la responsabilità personale del medico il cui compito è proporre trattamenti che mirino al vero bene del paziente, nella consapevolezza che la sua professionalità lo mette in grado di valutare la situazione meglio che il paziente stesso.
Dei tre obiettivi della professione medica (guarire la persona malata o almeno incidere in modo significativo sull’evoluzione della malattia; alleviare il dolore che l’accompagna, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi cura della persona umana in tutte le sue umane aspettative) quest’ultimo è quello più impegnativo e affascinante: ogni singolo paziente, anche quando la malattia è inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare, che costituisce il fondamento di ogni attività clinica.