Chi critica Pio XII accusandolo di non avere mai pronunciato, prima del crollo del nazismo, una solenne e pubblica condanna del razzismo hitleriano, evidentemente sa poco di Hitler, di Rosenberg («Il mito del XX secolo») e dei metodi della più implacabile dittatura di tutta la storia europea. Ma soprattutto ignora che la condanna di Eugenio Pacelli nei confronti del nazismo venne addirittura prima della presa del potere da parte di Hitler. E precisamente quando i vescovi tedeschi – con la piena approvazione dell’allora nunzio apostolico in Germania Pacelli – si erano pronunciati sulla inconciliabilità del nazismo con la fede in Cristo, e «L’Osservatore Romano», l’11 ottobre 1930, aveva proclamato l’appartenenza al NSDAP «incompatibile con la coscienza cattolica». Secondo una testimonianza di suor Pasqualina Lehnert nel suo libro «Pio XII: il privilegio di servirlo», Milano, 1984, Pacelli aveva letto «Mein Kampf» già nella sua prima edizione del 1925 ed aveva espresso su Hitler un severo giudizio: «Quest’uomo è completamente invasato. Tutto ciò che non gli è utile, egli lo distrugge. E’ capace di calpestare i morti. Eppure, tanti in Germania, anche tra le persone migliori, non lo capiscono. Chi di costoro ha almeno letto il raccapricciante “Mein Kampf”?».
A partire dall’indomani del Reichskonkordat (il concordato tra Stato tedesco e Chiesa, settembre 1933), e fino al 14 marzo 1937, data di pubblicazione dell’enciclica di Pio XI «Mit brennender Sorge», solenne condanna del nazismo, Eugenio Pacelli inviò ben 70 note di protesta al governo del Terzo Reich. Fu poi lui, nominato nel frattempo segretario di Stato, a scrivere, dalla prima riga all’ultima, la famosa enciclica, che Papa Ratti firmò il 14 marzo 1937 senza cambiare una virgola. Eletto Sommo Pontefice, ebbe subito cura di sostenere in ogni modo i vescovi tedeschi oppositori del regime hitleriano, in primis monsignor Clemens August von Galen, il vescovo di Münster che nel 1941, in piena guerra, aveva pronunciato tre prediche di durissima condanna del razzismo hitleriano, di fronte a migliaia di fedeli. Dopo quell’evento, che aveva avuto profonda eco sulla stampa di tutto il mondo, tutti attendevano, da un momento all’altro, l’arresto di Von Galen e la sua condanna a morte. Sull’organo delle organizzazioni giovanili delle SS, il Gauleiter della Westfalia, Alfred Mayer, aveva scritto: «Noi chiamiamo il porco Clemens August. Questo traditore della patria, questo porco ha osato parlare contro il Führer. Egli deve essere impiccato!». Ma le cose presero un’altra piega. Il 18 agosto 1941 Joseph Göbbels, il ministro della propaganda, ebbe un incontro con Martin Bormann, il gerarca più implacabile nel sollecitare l’arresto e l’impiccagione di Von Galen. In quell’occasione, lo invitò a non insistere: «L’intera Westfalia sarebbe persa per l’impegno bellico, se procedessimo ora contro il Vescovo». Pochi giorni dopo, Göbbels si recò da Hitler consigliandogli di rinviare ogni provvedimento. Così avvenne. Il Führer impartì personalmente l’ordine di non toccare Von Galen. In compenso, ebbe luogo una retata di 566 sacerdoti e 96 religiosi della diocesi di Münster, tutti rinchiusi nel Lager di Dachau, da cui pochi faranno ritorno. In quei giorni, ad Amburgo, tre sacerdoti furono decapitati per aver dato lettura, dal pulpito, delle tre prediche.
Questo era il nazismo. Se Pio XII avesse pronunciato una omelia sul tipo delle prediche di Von Galen, migliaia di sacerdoti sarebbero stati eliminati e l’organizzazione della Chiesa non avrebbe più potuto mettere in salvo gli ebrei che invece dovettero la vita – come lo stesso mondo israeliano riconosce – alle strutture della Chiesa.
Ciò tuttavia non impedì a Hitler di progettare la cattura di Pio XII. La rabbia del Führer contro il Papa esplose violenta nei giorni 25, 26 e 27 luglio 1943, durante le drammatiche conferenze militari convocate quasi ogni ora in seguito alla caduta di Mussolini e all’avvento di Badoglio. Devo queste notizie alle rivelazione fattemi dal generale Karl Wolff, capo delle SS e della polizia tedesca in Italia, nel 1983, un anno prima della sua morte. Ero andato ad intervistarlo per una serie di servizi a puntate usciti sul settimanale «Gente». Mi disse, tra l’altro: «Fui presente a tutte le conferenze, perché nel frattempo ero stato nominato rappresentante del Reichsführer Himmler presso il quartier generale. Poco prima della conferenza di mezzogiorno del 26 luglio 1943, quando ormai era chiaro che Mussolini era prigioniero del Re, Hitler puntò l’indice su di me urlando: “Lei, Wolff, a che punto è con il progetto per catturare il Papa? Deve riprenderlo immediatamente! Si tenga pronto a partire per Roma!”».
Della conferenza di quel giorno esiste peraltro il resoconto stenografico, pubblicato in «Hitler directs his war», a cura di Felix Gilbert, Oxford University Press, New York, 1950. Ecco i passi più interessanti, con le battute dei diversi interlocutori.
Hitler: «Bisogna restituire il colpo, e restituirlo facendo in modo di acchiappare il governo Badoglio al completo».
Hewel: «Dobbiamo comunicare o no che le uscite dal Vaticano saranno bloccate?».
Hitler: «Per me fa lo stesso, io il Vaticano lo occupo subito. Lei crede forse che il Vaticano mi metta soggezione? Lo occuperemo subito. C’è dentro l’intero corpo diplomatico, ma io me ne frego, più tardi faremo le nostre scuse. La banda è la dentro, e noi lo tireremo fuori, quel branco di porci!».
Bodenschatz: «La maggior parte si è rifugiata là dentro. Si credono al sicuro».
Hewel: «Ne troveremo, lì, di documenti!».
Hitler: «Lì? Ah, già, chissà quanti documenti troveremo. Ne caveremo fuori un bel po’ di roba, sul tradimento».
Poche ore dopo quella tempestosa conferenza, arrivò il comunicato di Badoglio con la famosa frase «La guerra continua». Anche i primi rapporti dell’ambasciatore tedesco a Roma, Von Mackensen, rassicuranti sulla fedeltà all’alleanza da parte del Re d’Italia e del nuovo governo, intervennero a gettare acqua sul fuoco. Il Führer si limitò ad ordinare il massiccio invio di divisioni tedesche in territorio italiano, in attesa dell’evolversi degli avvenimenti. Di rapire il Papa, almeno per il momento, non si parlò più. Ma il progetto tornò caldo poche settimane prima della presa di Roma da parte degli Alleati. E anche in quella circostanza, il vero protagonista fu il generale Wolff che aveva ricevuto da Hitler l’ordine di catturare il Papa e trasferirlo in un castello del Liechtenstein (sull’esempio di quanto aveva fatto Napoleone con Pio VII, imprigionato a Savona). Fu Wolff, in quella lunga intervista durata giorni, a raccontarmi i trucchi da lui posti in atto per rinviare il più possibile la data del sequestro del Papa. Uno dei non pochi elementi che giocheranno a suo favore a Norimberga, facendogli guadagnare il pieno proscioglimento.
Infine, ultima ma non ultima annotazione: come ho dimostrato nel mio ultimo libro «Operazione Walchiria: Hitler deve morire» (edizioni Ares), Pio XII «non poteva non sapere» tutto del complotto del 20 luglio 1944, dato che il colonnello Von Stauffenberg, dieci giorni prima di cercare di uccidere il Führer, era andato a confessarsi, aveva ottenuto l’assoluzione e si era comunicato dal vescov di Berlino, Konrad Von Preysing, l’uomo di fiducia numero uno del Papa in Germania.
Alla luce di queste annotazioni storiche, appare del tutto fuori luogo, e frutto di mancata conoscenza degli eventi, l’esortazione del rabbino capo di Haifa, Shera Yshuv Cohen, al Sinodo dei Vescovi, di non avviare il processo di beatificazione di Pio XII.