Si attende in queste ore la sentenza della Cassazione sul caso Eluana Englaro, che dovrebbe mettere la parola fine su una vicenda che ci ha tenuti sospesi per diversi mesi. Un caso estremo, che ha indubbiamente attratto l’attenzione di tutti. Anche troppo, col rischio cioè di dimenticare le tante avventure umane e i drammi simili a quello della famiglia di Eluana, ma dall’esito diverso: la fatica delle tante persone che vivono quotidianamente la lotta per l’affermazione della vita, ad ogni costo.
Fulvio De Nigris è una di queste persone. Non lotta più per la vita di suo figlio, Luca, scomparso a soli 15 anni nel 1998, dopo il calvario di una malattia che l’ha segnato dalla nascita, fino all’aggravarsi della sua condizione, al coma, alla speranza data dal risveglio, e infine alla morte. Ora Fulvio lotta per la vita degli altri: per coloro che hanno la vita “sospesa”, come l’ha avuta il suo Luca per 240 giorni, ma che da quel sonno apparente potrebbero risvegliarsi. E anche per tutti quelli che sono destinati a rimanere in quella condizione per molto tempo, ma che nondimeno meritano attenzione e cura.
La sua esperienza ha al centro un dramma personale, da cui però è nata una grande opera che è un bene per tutti: com’è successo?
La nostra è appunto un’esperienza che nasce innanzitutto dal dolore di una perdita, la morte di Luca, e che da qui si è sviluppata per orientarsi verso gli altri, in particolare per la cura dei soggetti che sono in coma e in stato vegetativo. Il nostro obiettivo è quello di occuparci innanzitutto di coloro che si trovano nella fase post-acuta, quando è possibile fare molto per il risveglio. Questa attività si svolge nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris”, che molti conoscono come modello sperimentale e all’avanguardia in questo tipo di cure. Accanto a questo, c’è l’associazione “Amici di Luca”, che si occupa a tutto campo di questi casi.
Dal continuo contatto con queste situazioni, che idea vi siete fatti sul dibattito intorno al caso Englaro?
Ci sono due effetti negativi di questo dibattito. Il primo è che partendo dal caso di Eluana si è diffusa l’errata convinzione che per soggetti come questi non sia possibile fare nulla; e questa è una cosa non vera. Inoltre, l’altra cosa che ci preoccupa, è che, a partire dalla pur rispettabile posizione di Peppino Englaro, si trasmetta all’opinione pubblica una sorta di disaffezione verso la cura e le strutture per l’accoglienza di persone in situazioni croniche. Tutto questo crea grande confusione, e la battaglia – che rispetto ma non condivido – di un solo genitore, rischia di monopolizzare l’attenzione, facendo dimenticare le tante persone che vivono gravi disabilità, verso le quali lo Stato deve garantire la libertà di cura. Noi continuiamo a parlare della libertà di fine vita, ma è la libertà di cura la prima cosa che lo Stato deve garantire. Chi ne parla?
Potremmo dire che concentrandoci tutti sul caso Englaro ci siamo dimenticati delle tante famiglie che continuano a lottare per la vita?
Non solo: ci siamo anche dimenticati del fatto che la situazione al centro di questo dibattito è del tutto atipica all’interno del panorama delle famiglie che vivono un dramma simile. Queste famiglie, soprattutto quando sono le madri ad accudire i figli, vogliono andare avanti fino alla fine, e i genitori vogliono morire prima dei loro figli. La grande maggioranza delle famiglie la pensano diversamente, e agiscono diversamente da quanto accade nel caso ora più discusso: nutrono la speranza di accompagnare, di essere sostenute, di condividere, di creare intorno a questi pazienti un clima umano molto forte, e di avere un ruolo nella società. È questo impegno che va sostenuto, e su cui la società dovrebbe concentrare la propria attenzione.
L’altro aspetto negativo è che il dibattito viene ridotto a uno scontro tra clericali e anticlericali. Lei invece è per la difesa della vita, senza essere un “clericale”…
Sì, in effetti la mia posizione è assolutamente laica; ed è proprio per questo che trovo molto sbagliata questa contrapposizione. Tra l’altro, aggiungo che partecipando a molti dibattiti sul tema mi è capitato di trovare addirittura alcune persone di Chiesa che – con mia grande sorpresa – mettono in dubbio la sacralità della vita. Comunque, al di là delle contrapposizioni, la vera domanda che bisogna porsi è: la dignità della vita è rapportata alla qualità della vita? Secondo me la dignità della vita è una cosa che prescinde dalla qualità, dalle situazioni contingenti. Molte famiglie, pur vivendo in situazioni di grande dolore e disagio, non smettono di riaffermare continuamente questa dignità, faticando per il raggiungimento della salute e del benessere della persona malata. E anche se non si cerca primariamente la guarigione, perché magari è impossibile, ciononostante non si abbandona l’impegno: ciò che è inguaribile, infatti, non è incurabile.
L’impegno dunque è sempre doveroso, e non si giustifica solo nell’imminenza della possibilità del risveglio?
Certo, il problema non è legato solo alla possibilità di risveglio. A volte si dice che se non c’è possibilità di risveglio non vale la pena, ma non è assolutamente così. Rimane comunque il fatto che è assai difficile porre dei limiti assoluti. Dal punto di vista della fede, c’è chi crede nella possibilità del miracolo, e nessuno deve togliere loro questa speranza. Ma anche dal punto di vista scientifico, dobbiamo dire, anche alla luce degli studi più avanzati, che non si può parlare di stato vegetativo “permanente”, bensì “persistente”, che è cosa ben diversa. È una condizione di vita che può cambiare nel tempo, anche positivamente.
Veniamo dunque al caso specifico della sentenza Englaro. Il Vaticano, ancora ieri, ha ribadito che interrompere l’alimentazione sarebbe una «mostruosità»: qual è il suo giudizio?
Parto da un’amara constatazione:qualche anno fa, quando ci fu il caso di Terry Schiavo, tutti avevamo pensato, con un minimo di sollievo, che almeno qui in Italia eravamo lontani dall’ipotesi che si potesse lasciar morire qualcuno di fame e di sete. Convinzione rafforzata quando il Comitato di Bioetica si pronunciò sul fatto che il sondino non è una terapia, ma una cosa dovuta. Ora purtroppo dobbiamo dire il contrario: se tutto sarà confermato, una donna morirà di fame e di sete. Questo è del tutto inaccettabile.
Ritorniamo alla sua esperienza personale: quanto è stato utile, dopo quello che la sua famiglia ha vissuto, impegnarsi nelle opere che nel tempo avete costruito?
A noi è servito molto. Ogni volta che noi vediamo un ragazzo che si risveglia dal coma, il nostro pensiero va a Luca e alla scommessa, da lui e da noi persa, ma che altri possono vincere. Ogni giorno noi facciamo questo, e lo facciamo per non dimenticare; e questo, nella pratica, si traduce nel fare qualcosa per gli altri. Lo dico con molta modestia, senza enfasi: noi tutti dell’associazione perseguiamo questo desiderio di andare avanti nella ricerca, da cui si nutrono molte speranze.
Chiaramente, ogni volta che qualcuno la pensa diversamente da noi, è un po’ una mezza sconfitta: il fatto che Eluana possa morire in questo modo è una sconfitta anche per noi. Ma, ripeto: il caso Eluana, comunque vada a finire, non deve spazzare via tutto l’impegno, anche economico, verso le strutture e i centri di cura per persone che vivono in condizioni simili a quella di Eluana. Altrimenti ci sarebbe un danno grave per tutti.