Si stringe il cerchio intorno alla povera Eluana, ora che la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva il ricorso della Procura Generale di Milano contro il decreto della Corte d’Appello che autorizza l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione con sondino naso-gastrico.
A fronte di questa nuova agghiacciante “sentenza di morte” alcuni autorevoli commentatori hanno osservato che le decisioni sul caso Englaro rappresentano l’esito di un’impostazione culturale secondo la quale l’individuo avrebbe una sorta di “diritto assoluto” di autodeterminazione, insuscettibile di limitazioni da parte dell’ordinamento giuridico.
Tale concezione, che dimentica (quanto meno) che il nostro ordinamento attribuisce natura indisponibile ai beni della salute e della vita della persona, è evidentemente presente in varie pronunce giudiziarie di questo ultimo anno (si pensi ad esempio alla sentenza sul caso Welby).
Tuttavia nel caso di Eluana si è andati ben oltre.
Eluana non si è affatto “autodeterminata” a richiedere l’interruzione del trattamento di alimentazione e di idratazione; altri l’hanno chiesto sulla base non già di formali dichiarazioni di Eluana, bensì di commenti da lei espressi non meno di 17 anni fa in occasione di incidenti occorsi ad altre persone.
Fa specie rileggere quanto veniva affermato soltanto un anno fa nella sentenza del Tribunale di Roma sul caso Welby.
In tale decisione, certamente criticabile nel suo insieme, si afferma infatti che non possono esercitare il rifiuto delle terapie salva vita «per conto del malato il rappresentante legale del minore o dell’infermo di mente, in quanto egli ha titolo solo per effettuare interventi a favore e non in pregiudizio della vita del rappresentato» e che il malato può compiere atti di disposizione «solo se pienamente consapevole della sua condizione psico-fisica, delle prospettive evolutive della sua condizione e delle conseguenze che possono scaturire dalle sue scelte, perché altrimenti la sua volontà sarebbe viziata da elementi di conoscenza distorti o mancanti e quindi non libera».
La stessa sentenza precisa poi che vi è la necessità «dell’attualità del rifiuto, non essendo sufficiente che la persona abbia espresso precedentemente la sua volontà in tal senso» e che pertanto il rifiuto «deve persistere nel momento in cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato».
Di tutti questi presupposti nel caso di Eluana non c’è traccia.
Eluana viene mandata a morire sulla base soltanto di valutazioni dei giudici circa il suo stato clinico e circa la ricostruzione della sua ipotetica volontà.
Ora scopriamo anche che, secondo la Corte di Cassazione, tali valutazioni non possono nemmeno essere messe in discussione dalla Procura, che infatti si è vista dichiarare inammissibile il proprio ricorso sul presupposto, che a questo punto non può non suonare come una beffa, che la questione non riguarderebbe «l’interesse pubblico e generale», che legittima l’azione della Procura stessa in sede di ricorso civile, bensì un «diritto personalissimo del soggetto».
Quando, come è accaduto nel caso di Eluana, la giustizia, in luogo di tutelare le persone più fragili e indifese, ne autorizza la soppressione, è segno che viviamo in un’epoca di barbarie.
Che almeno si abbia la decenza di togliere dalle decisioni sul caso di Eluana l’intestazione “In nome del Popolo Italiano”, dato che quanto meno una larga parte del popolo italiano non può certo riconoscersi in decisioni di questo tipo.