Carter Snead è professore di Diritto costituzionale nella Law School dell’Università di Notre Dame, negli Stati Uniti. Si è occupato del caso Terri Schiavo e dei complicati rapporti tra la scienza e il diritto con pubblicazioni sulle più prestigiose riviste giuridiche nord americane. Ilsussidiario.net ha parlato con lui della vicenda Englaro.
Professor Snead, lei conosce la vicenda di Eluana Englaro: cosa ne pensa?
Ho avuto modo di documentarmi sul caso, ma faccio fatica a capire su cosa si fonda esattamente il ragionamento di quei giudici che hanno disposto la sospensione della sua alimentazione. Negli Stati Uniti, ad esempio, per casi come quello di Eluana Englaro, è richiesto che vi sia una prova molto ben fondata. Quello che mi spaventò nel caso Terri Schiavo di alcuni anni fa fu che il giudizio della Corte fu approssimativo. I giudici, infatti, affermarono che si era innanzi a una “prova chiaramente convincente” che Terri Schiavo preferisse essere lasciata morire piuttosto che restare in quelle condizioni, ma la prova così chiara non c’era. Si trattava di dichiarazioni fatte molti anni prima del processo, e ricordate da poche persone.
Il caso ricorda molto da vicino il punto controverso della ricostruzione della volontà di Eluana.
C’erano tre testimoni soltanto, e ricordavano frasi dette molto tempo prima: la situazione era assolutamente simile a quella di Eluana Englaro. Lei capisce che tali dichiarazioni sono un po’ fragili come prove, e ho timore a pensare che sia sufficiente una cosa del genere per decidere della vita di una persona, la quale non può più esprimersi. Oltre tutto la legge della Florida, lo stato dove Terri Schiavo è morta, è chiara sul punto, ma i giudici, semplicemente, non la applicarono, fecero finta di niente.
Negli Stati Uniti avete una legge che prevede il testamento biologico?
No, la Florida non ha una legge che richiede il testamento biologico, però ha una legge molto ben articolata che stabilisce delle procedure per quei casi in cui una persona ha lasciato per iscritto le proprie volontà, come ad esempio a quali trattamenti medici desidera esser sottoposta e a quali no. Quella legge stabilisce anche in maniera chiara cosa si debba fare nel caso in cui una persona non possa più esprimersi sulle cure che è disposta a ricevere, o perché incosciente, o perché invalida, e non abbia lasciato nulla di scritto: il medico e il giudice possono ricostruire cosa voleva una persona attraverso testimonianze sullo stile di vita precedente e attraverso le testimonianze di dichiarazioni fatte in passato dal paziente. Su questi punti è chiara non solo la legge della Florida, ma ogni legge adottata nei diversi stati degli Usa; si tratta di una disciplina pressoché uniforme.
Allora che cosa tutela il malato da una ricostruzione arbitraria della volontà anteriore?
Tutte queste leggi prevedono che, nel caso non ci sia nulla di scritto, sia verificato uno standard altissimo della prova. La legge della Florida, quella applicabile al caso Terri Schiavo, dice espressamente che l’unico modo per interrompere un trattamento, se non vi è la prova scritta, è che ci sia una “prova chiara e convincente”, che è forse il più alto livello di standard richiesto per le prove nel diritto. Quella legge dice anche che ogni dichiarazione ambigua o poco chiara dev’essere interpretata a favore della vita. Una delle cose più tristi del caso di Terri Schiavo fu proprio la debolezza delle prove.
La Florida però ha una legge che regola questi aspetti; ma in Italia non è consentito risalire alla volontà di un paziente che non può esprimersi.
E su che base i giudici hanno stabilito l’interruzione dell’alimentazione? È sorprendente. Dovrebbe essere il legislatore a determinare i contorni di materie così delicate come la fine della vita e il testamento biologico. È veramente strano intervenire su un problema del genere in questo modo. Questo genere di abusi vengono determinati dalla generalizzazione del concetto di “diritto alla privacy”, o di “libertà”, che viene concepita in modo assoluto. Si opera estendendo tali categorie. Ad esempio, in ogni ordinamento la persona gode di un diritto generale a non essere toccata, e di un diritto a rifiutare un trattamento medico non voluto. Allora ci si può chiedere, come comportarsi nel caso in cui la persona non abbia più la coscienza o la capacità di esprimersi e di rifiutare un trattamento medico? La domanda è legittima, ma certe generalizzazioni non possono spingersi troppo in là: resta sempre, e ne ho già parlato, il problema delle prove.
Non è un problema di facile soluzione…
Bisogna, infatti, risalire a quello che veramente voleva la persona all’epoca in cui ha perso conoscenza. Purtroppo (come già nel caso Terri Schiavo) ho il presentimento che quello che è veramente successo nel caso di Eluana Englaro sia solo il pensiero dei giudici, i quali potrebbero aver fatto un ragionamento simile a questo: “la vita di questa persona è troppo menomata, quindi è senza significato, di conseguenza nessuna persona ragionevole potrebbe voler vivere in quelle condizioni, e quindi può essere lasciata morire”. Credo sia questo il vero ragionamento che sta dietro la decisione.
Su questo giornale la professoressa Violini in un suo precedente articolo sul caso di Eluana Englaro ha sottolineato un’importante anomalia. La Corte di Cassazione ha affermato che «la mera presenza in causa del curatore speciale (…) supera ogni problema di possibile conflitto tra la tutelata e il tutore». D’altra parte – dice la studiosa – “fin dall’inizio il curatore non ha fatto altro che sostenere appieno le scelte del tutore stesso, con ciò avallando l’immagine dell’esistenza di un solo interesse dell’interdetta, quello a veder conclusa la propria vicenda terrena tramite la sospensione di un “trattamento” a cui essa stessa non aveva consentito e a cui non avrebbe presumibilmente consentito, a detta dei giudici, se fosse stata cosciente”. Che ne pensa?
Il curatore non si è opposto? E su che base? Il curatore ha il dovere di agire “nel migliore interesse del paziente”. Com’è possibile che, dinanzi a delle prove scarse e frammentate come quelle della volontà di Eluana Englaro, il miglior interesse sia coinciso col lasciarla morire? Nel momento in cui un curatore, innanzi a prove incerte, smette di agire nel migliore interesse del paziente non so se debba essere revocato, però di sicuro non si può dire che stia agendo nel migliore interesse del paziente.
È possibile, com’è avvenuto nel caso Englaro, che una persona disponga della vita di un altra, e che i giudici possono dire che sia meglio che una persona amata e accudita, com’è Eluana Englaro nella clinica, venga lasciata morire?
Mi risulta che in questo caso il ricorso è stato presentato dal padre della paziente; è il padre, quindi, che ha deciso sulla qualità della vita della figlia. Questo è il giudizio più pericoloso che chiunque possa fare per qualsiasi altra persona. Dire: “la tua vita è così menomata, la tua qualità della vita è così bassa, che nella mia concezione di pietà è meglio che tu finisca la tua vita” è veramente pericoloso. È pericoloso innanzitutto perché non vengono impiegati dei criteri autentici. E poi, se uno mettesse altri criteri, come “vivere con handicap non è degno”, cosa succederebbe? Inoltre, se si continuano ad adottare questi standard di prova, in cui con prove e testimonianze scarse si decide della vita di un altro, il fatto è ancora più preoccupante. Infine, questo atteggiamento è pericoloso per lo Stato: in questo caso così drammatico una persona non ha espresso chiaramente la sua volontà di morire, e lo Stato è prevaricato dai suoi compiti di tutela solo perché un’altra persona dice: “Secondo me è meglio che quella persona non viva”. È una situazione pericolosa.