Il pacchetto clima-energia della UE

I paesi europei hanno raggiunto un accordo sul “pacchetto clima – energia”, il piano di politica energetica e climatica lanciato nel 2007 dalla Commissione. Il pacchetto ruota intorno a tre obiettivi da raggiungersi nel 2020 (piano cosiddetto “20-20-20”): 

Riduzione del 20% delle emissioni di gas serra (rispetto al 1990),



Produzione del 20% dell’energia utilizzata con fonti rinnovabili,

Aumento del 20% nell’efficienza energetica (risparmio dell’uso di energia primaria).

Due precisazioni. Innanzitutto, gli obiettivi appena menzionati riguardano l’Unione Europea nel suo complesso e sono poi modulati in target per i singoli Stati membri e per i singoli settori industriali. La vivace opposizione dell’Italia e di altri paesi si spiega innanzitutto con la severità di tali vincoli specifici e quindi con le logiche di modulazione discusse di seguito. Inoltre, gli obiettivi sui gas serra e sulle rinnovabili sono vincolanti, mentre l’obiettivo di miglioramento dell’efficienza energetica consiste in una raccomandazione. Per la riduzione del 20% delle emissioni, in realtà, un maggior risparmio energetico è necessario quanto l’aumento della quota delle rinnovabili, ma la Commissione ha preferito concentrare gli obblighi su quest’ultimo obiettivo.



Il pacchetto “clima – energia” rappresenta la modalità con cui l’Unione Europea dà seguito alla Convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, un accordo a cui partecipano più di 190 paesi con l’obiettivo di ridurre i cosiddetti “gas serra”, le emissioni di biossido di carbonio (CO2) e di altri gas che modificano le proprietà radianti dell’atmosfera. Le emissioni originate da attività umane (e non da fenomeni naturali) sono in parte significativa riconducibili all’utilizzo di combustibili fossili per fini energetici (produzione di energia elettrica, trasporto, processi industriali e usi civili). Gli ultimi decenni hanno visto sia un aumento di concentrazione di gas serra nell’atmosfera sia mutamenti del clima a livello mondiale (quali l’aumento della temperatura in alcune regioni del pianeta). Non è possibile dare qui conto del dibattito interno alla comunità scientifica sulla natura dei due fenomeni e sulla relazione che corre dalla concentrazione dei gas serra agli effetti climatici. Ci si limita a osservare che i governanti di molti paesi, soprattutto avanzati, hanno assunto che esista una causalità e hanno intrapreso diversi interventi per la riduzione progressiva delle emissioni di gas serra, con l’obiettivo di mitigare il cambiamento climatico. Tra i paesi e le organizzazioni internazionali della Convenzione Onu sul cambiamento climatico, 55 hanno aderito a partire dal 1998 ad un insieme di impegni vincolanti noti come Protocollo di Kyoto; un nuovo trattato è stato discusso in questi giorni alla conferenza di Poznan e verrà lanciato l’anno prossimo a Copenhagen.



 

Effetti per i singoli paesi e per i singoli settori: la posizione dell’Italia

Innanzitutto, l’obiettivo assegnato a ciascun paese europeo è tanto più stringente tanto maggiore è il ritardo del paese nella realizzazione degli impegni assunti con il Protocollo di Kyoto e tanto più alto è il PIL pro capite; per queste ragioni, l’Italia ha oggi un compito più difficile della media dei paesi europei. Gli obiettivi di riduzione dei gas serra sono inoltre declinati per i singoli settori industriali. Ad esempio, in un settore quale i trasporti è prevista a livello europeo una riduzione media del 10% (si noti: rispetto al livello del 2005); importante notare che, per l’Italia, stante il meccanismo di calcolo dei target di paese, si trasforma in una riduzione del 13%.

In secondo luogo, le direttive del pacchetto, oltre a definire gli obiettivi, definiscono anche alcuni strumenti con i quali le imprese dovranno adempiere gli obblighi su emissioni e rinnovabili. Ad esempio, i produttori elettrici e le industrie energivore (quali la siderurgia, ma anche la carta e la ceramica), per raggiungere il proprio obiettivo (riduzione delle emissioni del 21% rispetto al 2005), possono procedere alla riduzione in proprio con un cambiamento dei processi produttivi o possono acquistare il certificato di riduzione da altri attori più virtuosi (emissions trading); inoltre, devono acquistare all’asta i permessi per le emissioni loro consentite. Ancora, per una quota, l’adempimento dell’obbligo di riduzione può essere ottenuto con la partecipazione a progetti di riduzione dei gas serra in paesi extra-europei (meccanismi flessibili)

Le minacce di veto dell’Italia erano sorte in particolare da due fronti. Primo, per alcuni settori manifatturieri rilevanti nel nostro paese, come ad esempio i produttori di ceramica, era stata richiesta l’esenzione dall’obbligo di acquistare i permessi per le emissioni; su tale punto è stato ora raggiunto un compromesso. Secondo, veniva richiesto più spazio per i progetti extra-europei di riduzione dei gas serra.

 

I motivi della contrapposizione

L’opposizione italiana faceva dunque riferimento ai costi aggiuntivi per produttori esposti alla concorrenza internazionale. A questo riguardo, va detto che le stime sui costi dell’implementazione dei target circolate di recente derivano dall’applicazione di scenari ad-hoc, da approfondire e da valutare con attenzione. Tuttavia, non si può altresì escludere che le attuali richieste derivino da problemi effettivi sul fronte della fattibilità tecno-economica dei target. Tanto più che all’adesione senza tentennamenti tipica del passato decennio aveva nella realtà fatto seguito non una riduzione, ma una crescita delle emissioni (+18% rispetto al livello previsto dal Protocollo di Kyoto)!

La resistenza della Commissione a negoziare è l’altra faccia della medaglia ed è, almeno in parte, riconducibile alla decisione europea di puntare alla leadership degli accordi climatici internazionali. Occorre a questo punto ricordare che al Protocollo di Kyoto non aderiscono importanti paesi avanzati, quali gli Stati Uniti, e paesi in corso di rapida industrializzazione, come la Cina e l’India. Si tratta di paesi che producono quasi la metà delle emissioni di gas serra su scala mondiale e la loro mancata adesione introduce inevitabilmente qualche timore sull’efficacia delle politiche di mitigazione. Ciò detto impressiona la forza ideologica ed emotiva con la quale molti paesi europei e il governo dell’Unione Europea hanno assunto lo sforzo per la mitigazione del rischio e dei costi del cambiamento climatico. La documentano le dichiarazioni di alcuni parlamentari europei nel corso del dibattito sul pacchetto clima-energia: “una delle sfide centrali del nostro tempo”, “un punto di svolta nella nostra storia”, e così via. D’altra parte, non mancano le voci per le quali si tratta di misure che “rappresentano la più grande fuga collettiva dalla realtà che io abbia mai visto”. 

Vi sono poi aspetti problematici di natura culturale, prima che politica.

Primo, vengono mantenuti numerosi interventi di supporto mirato: sussidi pubblici alla ricerca e sviluppo in certi campi, incentivi all’adozione di certe tecnologie. Ma le politiche pubbliche di “technology pick-up” non sono esenti da problemi. Un esempio interessante è stato il massiccio intervento pubblico di Stati Uniti e di altri paesi a favore dei biocarburanti: alcuni osservatori ed esperti attribuiscono proprio alla conversione del terreno agricolo a fini energetici una responsabilità importante nella crisi dei mercati agricoli occorsa nei mesi passati. Sempre a questo proposito: se si intendono favorire le tecnologie carbon-free, perché non predisporre strumenti neutri, basati solo sulle performance in termini di riduzione delle emissioni, piuttosto che sulla natura della tecnologia? Essi potrebbero essere usati per facilitare l’accettazione sociale degli impianti a fissione nucleare o dei grandi impianti idroelettrici, dato che le attuali virtù climatiche di molti paesi europei sono riconducibili proprio all’adozione di tali tecnologie.

Secondo, l’Unione Europea ha deciso di concentrare i vincoli sulla diffusione delle rinnovabili, piuttosto che sul risparmio energetico. Si tratta di una scelta con luci e ombre. Da una parte, la “contabilità” del ricorso alle fonti rinnovabili è relativamente semplice rispetto al monitoraggio capillare di tutte le pratiche per l’efficienza energetica (dagli apparati di illuminazione ai materiali per l’edilizia). D’altra parte, con qualche eccezione di tecnologia e di paese (si pensi all’eolico in Danimarca o in Spagna), le rinnovabili hanno per ora una dimensione di nicchia e di proptotipo. Le decisioni a riguardo della loro ingegnerizzazione e produzione su larga scala sono ancora gravate da numerose incertezze, così come i benefici della loro adozione, a meno di mantenere incentivi pubblici molto forti o di obblighi con costi elevati per i privati. Invece, l’adozione delle tecnologie di risparmio energetico nel settore civile, nell’edilizia, nell’industria già oggi vede una maggiore importanza delle scelte di mercato, non guidate in toto dall’intervento pubblico; si tratta infatti di prodotti più maturi e caratterizzati da un rapporto benefici – costi in generale più favorevole e più visibile.

 

In conclusione

Il problema del cambiamento climatico e delle relative politiche di contrasto sfida ad una sempre migliore comprensione del rapporto tra crescita economica e valorizzazione delle risorse naturali. Si tratta di una relazione complessa e non univoca e quindi sono ben comprensibili sia la varietà delle voci del dibattito sia la ricerca di compromessi. In un quadro di conoscenza ancora relativamente debole, va preferita una politica graduale che dia la preferenza agli interventi meglio compresi in termini di effetti tecnologici ed economici e che rifugga da preferenze di natura ideologica per uno o per l’altro strumento.