Presentando il testo alla stampa, mons. Rino Fisichella ha spiegato che i tempi sono «favorevoli» per uno sforzo comune di «credenti e non credenti» sui temi della vita, visto che viviamo «un momento di passaggio culturale caratterizzato dalla mutazione dei concetti fondamentali che abbiamo usato fino ad oggi», e questo a causa della «sperimentazione selvaggia». Abbiamo chiesto a don Roberto Colombo, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare e Genetica Umana dell’Università Cattolica Milano, di approfondire le ragioni che hanno portato alla stesura del documento.



Perché, dopo più di vent’anni, la Congregazione per la dottrina della fede ha sentito la necessità di aggiornare il documento Donum vitae?

L’istruzione su “Il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione” (Donum vitae) era apparsa nel febbraio del 1987, dopo una decina di anni dall’inizio dell’applicazione clinica umana delle prime tecniche di fecondazione in vitro (la prima nata da queste procedure fu Louise Brown, nel 1978). Inoltre, in quegli anni, si stavano anche sviluppando forme di sperimentazione in laboratorio sull’embrione umano e la diagnosi prenatale finalizzata all’aborto selettivo trovava più estese applicazioni grazie ai nuovi modelli di strumenti per ecografia ostetrica ed alla diffusione dei prelievi di cellule fetali presenti nel liquido amniotico (amniocentesi). Nei due decenni successivi alla pubblicazione di Donum vitae ulteriori e diversi attentati alla vita ed alla integrità dell’embrione umano (quali la diagnosi genetica sull’embrione prima dell’impianto in utero, i tentativi di clonazione umana e di ibridazione animale-uomo, la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane) ed alla dignità della procreazione (come la iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo ed altre nuove tecniche di fertilizzazione extracorporea) hanno suggerito alla Chiesa cattolica di precisare e completare il giudizio – alla luce della ragione e della fede – su quanto sta avvenendo nel mondo della ricerca biomedica e della pratica clinica. Come afferma lo stesso testo di Dignitas personae, non si tratta di enunciare nuovi principi, ma di affrontare «alcune problematiche recenti alla luce dei criteri enunciati dall’Istruzione Donum vitae» e riprendere «in esame alcuni temi già trattati, ma ritenuti bisognosi di ulteriori chiarimenti» (Introd., n. 1).



I media hanno subito rilevato che nel testo si trova l’affermazione: «l’embrione ha fin dall’inizio la dignità propria della persona». Perché è stata scelta quest’affermazione? La Chiesa non ha sempre sostenuto che l’embrione è persona?

Richiamando quanto affermato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae, Dignitas personae ricorda che il Magistero della Chiesa non si è mai impegnato «espressamente su un’affermazione d’indole filosofica» e che «Donum vitae non ha definito che l’embrione è persona» (Parte I, n. 5). La categoria di “persona” e la sua capacità antropologica di abbracciare il concepito sin dall’inizio della sua esistenza è oggetto di un intenso dibattito filosofico nel quale la Chiesa non intende entrare in modo definitorio, la sua missione essendo quella di educare all’amore alla vita umana in tutte le stagioni della sua esistenza e di richiamare al rispetto dovuto all’embrione e al feto in quanto esseri umani all’inizio del loro sviluppo. Così scriveva, nel 1995, Giovanni Paolo II: «Come un individuo umano non sarebbe una persona umana? Del resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona per giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere l’embrione umano» (Evangelium vitae, n. 60). Anche laddove non sono stare raggiunte certezze filosofiche unanimi sulla persona dell’embrione, è perfettamente ragionevole ammettere che «l’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento» (Donum vitae, Parte I, n. 1). È una certezza morale quella che qui viene affermata. E, nella vita pratica, le certezze morali contano più di quelle filosofiche.

Come va letto il documento? Che cosa accomuna i “no” che vi sono contenuti?

Come in altre circostanze della vita individuale e sociale, i “no” possono essere pronunciati solo perché prima si è detto un “sì”. Non sarebbe ragionevole chiedere il sacrificio di una rinuncia se esso non fosse per un bene grande, fondamentale, personale e di tutti. Un bene così grande da rendere accettabile e corrispondente alle esigenze della ragione un passo indietro rispetto a quello che l’intelligenza ha progettato e che la volontà si appresterebbe a compiere. Così è anche per la ricerca scientifica in campo biomedico e per il desiderio dei coniugi affetti da sterilità di poter abbracciare un figlio. Il grande “sì” che il testo ci suggerisce è quello alla vita. Alla vita di ogni uomo e di tutti gli uomini, dal più piccolo e indifeso, quale è l’embrione umano nei primi stadi del suo sviluppo, sino all’adulto malato che non è più autosufficiente, che giace immobile in un letto e con il quale non siamo più in grado di comunicare. Dignitas personae stima e valorizza gli sforzi dei ricercatori e dei medici e la domanda di un figlio da parte di una coppia di sposi, ma li invita anche ad essere «il custode del valore e dell’intrinseca bellezza» di tutto l’uomo e di ciascun uomo (Concl., n. 36). Un invito a contemplare la verità e la bellezza della vita come sorgente normativa delle scelte della famiglia, della scienza e della medicina.

Se il matrimonio è aperto alla procreazione, perché il desiderio di avere figli non può essere comunque e sempre soddisfatto? Dare la vita non è una cosa comunque e sempre buona?

Il desiderio è umano, degno della statura antropologica e morale dell’uomo, solo se è desiderio di un bene e se il conseguimento di tale bene è perseguito attraverso atti buoni. Come dicevano i medioevali, non si può volere se non “sub specie boni”. Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, «l’atto moralmente buono suppone, ad un tempo, la bontà dell’oggetto, del fine e delle circostanze». Così, «un’intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo), non rende né buono né giusto un comportamento in sé stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi» (nn. 1753 e 1755). La moralità consiste nel riconoscere ed attuare il nesso tra un’azione ed il significato del tutto implicato in quell’atto. Come potrebbero dei coniugi cercare di concepire un figlio dimenticando il valore fondamentale della vita di ogni concepito, trascurandone la dignità ed il valore e mettendo a rischio la vita di altri embrioni per far nascere un bambino, pur desiderato e a lungo atteso? Non si può amare la vita di un uomo o di una donna, di un bambino, senza, al contempo, portare rispetto e venerazione per ogni vita che Dio dona, anche al più piccolo essere umano vivente che viene al mondo. L’oggetto di un desiderio (in questo caso, dovremmo parlare di un “soggetto”, dato che è un uomo) impone il metodo della sua ricerca, del suo conseguimento, che non può avvenire in qualunque modo, ad ogni costo.

Secondo alcuni commentatori, il documento Dignitas personae, a differenza di Donum vitae, direbbe sì alla procreazione medicalmente assistita. E’ vero?

Si tratta di una lettura superficiale e distratta dei due testi della Congregazione per la Dottrina della Fede. Le “tecniche di aiuto alla fertilità” (o “cura dell’infertilità”, come le chiama anche Dignitas personae al n. 12 della Parte II) sono di diversa natura clinica. La medicina e la chirurgia non offrono solo la possibilità della fecondazione in vitro con trasferimento in utero degli embrioni (FIVET, ICSI ed altre procedure di manipolazione dei gameti e fecondazione extracorporea). Come già Donum vitae aveva fatto, il nuovo documento distingue accuratamente tra  «interventi che mirano a rimuovere ostacoli che si oppongono alla fertilità naturale» (Parte II, n. 13: terapie farmacologiche, interventi di microchirurgia, ecc.), al fine di consentire una fecondazione nella sue sede fisiologica attraverso l’incontro dei gameti, dalle tecniche di fecondazione al di fuori del corpo femminile, quelle di cui si occupa estesamente – tra l’altro – le legge italiana n. 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Queste ultime, per il credente, restano moralmente inaccettabili, perché – come già aveva messo in luce Donum vitae – comportano «la dissociazione della procreazione dal contesto integralmente personale dell’atto coniugale» (Parte II, n. 16). Generare un figlio è e deve restare un atto personale dell’uomo e della donna chiamati da Dio ad essere padre e madre attraverso il reciproco amore consacrato, un atto non “vicariabile” da parte della biologia e della medicina. Queste ultime posso aiutare il compimento della finalità procreativa dell’atto coniugale rendendo possibile la fertilizzazione intracorporea qualora ostacoli di natura patologica la impediscano, ma con discrezione, non sostituendosi al compito irripetibile che Dio ha affidato ai coniugi.