Il compromesso sul pacchetto energia e clima dell’Unione europea è, al tempo stesso, il massimo che si potesse ottenere in condizioni negoziali critiche, e una brutta via d’uscita dal vicolo cieco in cui l’Europa si è cacciata.

Il punto di equilibrio tra il fronte degli eco-entusiasti guidati dalla Francia (mossa più da ambizione politica che da interessi reali) e quello degli scettici, Italia in testa, si è adagiato sulla definizione di esenzioni e scappatoie dalle regole comunitarie.



In pratica, l’Europa riconosce che il costo delle nuove misure è insostenibile per quella grande parte del mondo manifatturiero che è esposto alla competizione internazionale. Imporre obiettivi vincolanti e durissimi a queste realtà sarebbe come gettare il bambino e tenere l’acqua sporca: l’aumento dei costi di produzione spingerebbe le imprese a delocalizzare in Paesi che, generalmente, hanno una bassa efficienza nella produzione e nell’uso dell’energia.



Quindi, contemporaneamente sarebbe azzoppata la competitività europea e l’effetto netto sulle emissioni sarebbe quello di aumentarle. Infatti, la riduzione delle emissioni nell’Ue, dovuta alla chiusura delle fabbriche, sarebbe più che compensata dal loro più che proporzionale aumento altrove.

Da qui, l’accordo di Bruxelles: escludere parzialmente o totalmente dall’acquisto delle quote di emissione durante la fase della distribuzione iniziale i settori in sofferenza. Con quali effetti, però? Dal punto di vista redistributivo, parte del peso degli obiettivi, che restano immutati, viene necessariamente trasferito sui governi, cioè sui contribuenti.



Dal punto di vista della credibilità politica, invece, le conseguenze possono essere devastanti. L’Ue ha, cioè, definito regole rigorosissime, e contemporaneamente ha sviluppato in lungo elenco di eccezioni, che nella pratica saranno concesse a quanti saranno convincenti nell’elemosinarle dai governi e dalle burocrazie europea e degli Stati membri.

L’accordo raggiunto contiene anche un clausola di revisione, legata all’esito del meeting climatico di Copenhagen, alla fine del 2010, da cui l’Europa si aspetta di ottenere una disponibilità a ragionare su un framework comune da parte dei grandi attori che finora se ne sono tenuti fuori, in particolare gli Stati Uniti, la Cina e l’India.

Non è chiaro come la revisione verrà effettuata e in che direzione, ma è certo l’investimento politico – sarebbe meglio dire la scommessa – che la Commissione fa sul nuovo presidente americano, Barack Obama. Le fonti rinnovabili, il “green deal” e la lotta ai mutamenti climatici sono in effetti centrali nella retorica nel nuovo inquilino della Casa Bianca, ma è improbabile che Washington possa accettare i termini di un accordo simile al protocollo di Kyoto per il post 2012.

Da un lato, infatti, la crisi finanziaria rende difficile intraprendere iniziative di spesa particolarmente vaste, soprattutto se queste implicano l’adozione di misure punitive nei confronti dell’industria a stelle e strisce.

Dall’altro, visto il sistema politico americano, è difficile che un presidente voglia legarsi le mani non già in funzione di politiche interne, ma di trattati internazionali il cui funzionamento è legato alla volontà e alla lealtà di altre nazioni; ed è ancor meno realistico che un’impostazione del genere, se mai fosse condivisa dall’amministrazione, venga ratificata dal Senato, dove in ogni caso i democratici non dispongono di un margine sufficiente per procedere a colpi di maggioranza.

Quindi, nella misura in cui le ambizioni europee si collocano in questo scenario internazionale e in questo contesto economico-finanziario, le sue fondamenta sono deboli e scivolose, e il rischio è che l’Ue si trovi in futuro, come in passato, impiccata al suo stesso unilateralismo.

Anche a prescindere dagli sviluppi futuri, il risultato uscito dal Consiglio dell’11-12 dicembre 2008 è molto costoso, e rappresenta una potenziale bomba a orologeria per la capacità europea di attrarre investimenti non sussidiati, che sono gli unici produttivi. Il fatto che non si potesse ottenere di più – e su questo vanno riconosciuti i meriti del governo – non rende il veleno meno acre.