Com’era forse prevedibile, l’intervento del ministero della Salute, con cui si dà indicazione precisa agli ospedali del Servizio sanitario nazionale di non mettere in atto l’abbandono di un disabile grave, ha provocato forti reazioni. “Diktat” del ministero, è stato definito da alcuni giornali. Ma veramente si tratta di un intervento imperioso calato dall’alto? È un atto ostruzionistico, o invece un’azione con piene motivazioni dal punto di vista giuridico? Alberto Gambino, ordinario di Diritto Privato e di Diritto Civile nell’Università Europea di Roma, è convinto non solo della legittimità, ma anche dell’assoluta opportunità di questo intervento.



Professor Gambino, quali sono i fondamenti normativi che hanno portato il ministero a fare questo atto?

L’atto di indirizzo si fonda intanto su quelle che sono niente meno che le prerogative stesse del ministro della Salute, che per disposizione costituzionale deve garantire su tutto il territorio nazionale il diritto alla salute per tutti i cittadini. Si tratta di un interesse pubblico, e in quanto tale non può che avere una guida e una direzione imputata agli organismi centrali dello Stato, nel caso specifico il ministero della Salute. Questo il motivo per cui il ministero può a pieno titolo emanare direttive e atti di indirizzo, rivolte agli enti regionali, dal momento che la sanità è organizzata su base regionale.  Pertanto bisogna affermare che l’atto riguardante il non abbandono della persone disabili, che si ripercuote sul caso Englaro, non solo è legittimo, ma è anzi opportuno. L’opportunità dell’atto non riguarda poi solo l’aspetto procedurale, ma anche il merito, dato che il dibattito sul fatto che alimentazione e idratazione possano in certe condizioni essere considerate trattamento sanitario è decisamente aperto.



Che cosa si può dire di certo su questo ultimo aspetto? C’è chi insiste nel dire che l’alimentazione forzata sia accanimento terapeutico.

Quel che si può dire con certezza è che la questione è ampiamente dibattuta. Basta guardare i diversi disegni di legge sull’argomento. E si tratta per altro di disegni approntati da politici che hanno notevole esperienza in capo medico, a dimostrazione che è proprio tra gli esperti che manca l’accordo. Le ipotesi sono le più diverse: c’è chi parla di alimentazione e idratazione come di un trattamento sanitario; chi avanza l’ipotesi che si tratti di accanimento terapeutico; chi invece dice che non è nemmeno trattamento sanitario, ma semplice accudimento della persona. In un momento in cui non c’è certezza sull’argomento, la politica però non può sottrarsi dal dare delle indicazioni nazionali. Non potremmo certo accettare che ogni Regione decida di testa propria, dal momento che il diritto alla salute è un diritto di tutta la collettività, così come previsto dalla Costituzione italiana, e non un semplice diritto del singolo, come ad esempio previsto dall’ordinamento americano.



Vediamo le conseguenze normative di questo atto: cosa deve fare adesso un ospedale, che si trovasse indeciso tra l’atto di indirizzo del ministero e la sentenza sul caso Englaro?

La sentenza del tribunale autorizza un’unica persona, cioè il tutore, a interrompere il trattamento per Eluana Englaro. Il tutore, e nessun altro che il tutore. La sentenza si ferma lì. Le modalità con cui il tutore può porre in essere sono poi indicate, ma non sono obbligatoriamente esercitabili in struttura pubblica sanitaria. L’atto del ministro è invece specificamente indirizzato alle sue amministrazioni, le quali fino a prova contraria non possono fare altro che seguire la linea nazionale. In caso contrario ci troveremmo ad avere venti diversi tipi di Sanità; il che, evidentemente, non è costituzionale. Quindi le strutture non possono far altro che seguire l’indirizzo del ministero. Questo è semplicemente l’“abc” della giurisdizione dello Stato, secondo quanto dice l’articolo 32 della Costituzione. Quindi è sorprendente che ci possano essere reazioni contrarie. Certo, altro discorso è poi quello del tutore: su di lui l’atto del ministero non ha ripercussioni. Il tutore potrà fare quello che si sente di fare in coscienza; e in virtù della sentenza, quello che solitamente sarebbe considerato un reato qui non lo è.

Il giudice della Corte d’Appello di Miano, Filippo Lamanna, ieri ha detto però che la sentenza è ormai esecutiva, a prescindere dall’atto del ministero: è così?

La sentenza non è esecutiva, per il semplice motivo che non c’è un obbligo in capo a qualcuno. Se il dottore volesse, può (non deve, può) decidere di staccare il sondino con cui Eluana viene nutrita. Questo fa capire con tutta evidenza che la sentenza non è esecutiva: è un decreto di attuazione che dà un potere discrezionale, che come tale è in contraddizione con le sentenze esecutive. Le sentenze esecutive, per intendersi, sono quelle di condanna, in cui interviene la forza pubblica per effettuare quanto previsto dalla sentenza stessa. I decreti di attuazione della sentenza sul caso Englaro, invece, non sono suscettibili di esecuzione forzata, perché lasciano la discrezionalità al tutore. Non si dice che si deve per forza far cessare l’alimentazione. Parlare di sentenza esecutiva è quindi un’interpretazione del tutto erronea.

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