Da più parti si è arrivati a fare appello alla “pietas”, ad un sentimento di carità compassionevole, per porre fine alla vita di Eluana Englaro. Ma Claudio Betto, primario di Neurorianimazione nell’Ospedale Niguarda di Milano, non è d’accordo. «Perché si preclude un’ipotesi aperta alla vita? No alle invasioni di campo dei giudici, lo stato sia garantista fino in fondo». Lo stato vegetativo? Le nostre conoscenze sono parziali – dice Betto – sappiamo ancora troppo poco.
Dottor Betto, in questi giorni si è invocato sui giornali un atteggiamento di pietas per definire la buona volontà di chi decide di accompagnare Eluana alla morte: ci può provare a descrivere invece la pietas di chi accompagna le persone nella lotta per la vita?
Pietas nell’accompagnare una persona alla morte? Posso capire la situazione di Beppe Englaro, ma non la condivido. Non posso riconoscermi in un atteggiamento simile. La mia preoccupazione, invece – ma sono convinto che sia anche quella di tanti colleghi – è di non abbandonare i familiari di persone in condizioni così difficili, persone che abbiamo seguito per settimane, al loro destino, ma in qualche modo di far loro compagnia.
Si tratta in definitiva, di una scelta per la vita…
Sì, io posso affermare che opero innanzitutto per la vita. Qualche tempo fa è arrivata qui una mamma in stato di morte cerebrale e con un bambino in grembo: e non ho avuto dubbi. Capita che il risultato sia diverso da quello sperato, o inferiore alle aspettative, e ci si trova spiazzati, disorientati. Ma è una situazione che si deve accettare.
Come reputa, dal punto di vista medico, la scelta di assecondare quanto prescritto dalla sentenza della Cassazione sul caso Englaro offrendosi volontariamente di eseguirla?
È una scelta che non condivido. Ciascuno di noi ha sue competenze ed ha maturato un’esperienza professionale e umana nel trattare pazienti in ospedale. Ecco perché non vedo di buon occhio che un giudice mi dica di staccare la spina. Mi sembra un’ingerenza, voluta e scatenata ad arte da chi ha voluto trasformare una vicenda umana personale, come quella di Eluana Englaro, in un caso politico. Col risultato che adesso il giudice entrerà in corsia per dirci quello che dobbiamo fare. È invadente e poco pertinente al nostro lavoro.
Se la sentenza fosse eseguita, come sarebbero gli ultimi giorni di Eluana?
Alla persona verrebbe sospesa l’idratazione, come è stato per Terri Schiavo. Andrebbe avanti per setto, otto, quindici giorni, spegnendosi lentamente. Far morire di fame e di sete è disumano. Al massimo i volontari potranno umettare le mucose con acqua, ma non penso che potranno fare molto di più. Dovranno sedarla per diminuire la sensazione di dolore, che sicuramente proverà.
Secondo lei, che vive e lavora a contatto con situazioni drammatiche di sofferenza, è possibile voler morire?
Suo padre afferma che Eluana in passato ha detto che non avrebbe mai voluto vivere in una condizione come quella attuale. Ma si potrebbe anche obiettare che nessuno sa cosa avrebbe scelto Eluana, posta di fronte all’eventualità di nel caso che qualcuno le avesse chiesto se era disposta a morire di fame e di sete. Ma occorrerebbe sempre mantenere un’ipotesi positiva, aperta alla vita.
Cosa intende dire?
Ormai le conoscenze tecniche e scientifiche permettono al rianimatore di sostenere le funzioni vitali in maniere sempre più avanzate. Quando purtroppo, per una persona in stato vegetativo, il risultato è inferiore alle aspettative, la soluzione non dovrebbe essere quella di mettere la pistola in mano a un giudice, o di tagliare il sondino. Ci dovrebbe essere la possibilità di avere un appoggio per le famiglie, dando così un vero aiuto al paziente. E quindi avere una doppia possibilità di “uscita”, non soltanto il giudice che arma la mano del medico eventuale che si offre di staccare il sondino, come si è offerto il dottor Riccio con Welby, e come se ne troverà un altro in questo caso. Se la legge è garantista, deve esserlo sempre.
Cosa pensa, come medico, dell’atto di indirizzo del ministro Sacconi?
Lo condivido.
I questi giorni si è tornati a parlare di casi di risveglio: come avviene il ritorno alla coscienza, o quanto meno allo stato di minima coscienza? È ancora possibile che questo possa ancora accadere a Eluana?
Questi casi di risveglio a distanza di tempo ci sono. Va anche detto che nell’opinione pubblica c’è una gran confusione tra le condizioni della morte cerebrale e dello stato vegetativo. Nel primo caso il cervello muore e vengono a esaurirsi le funzioni di controllo che il cervello ha sulle varie funzioni vegetative: per esempio il cuore pompa con minore intensità, viene a cessare la respirazione spontanea, una serie di funzioni o vengono sorrette dall’esterno – cosa che noi facciamo durante l’osservazione medico legale o eventualmente per fare “da ponte” al prelievo di organi – o il paziente muore. In questo caso il legislatore ha decretato che queste valutazioni riguardanti la morte cerebrale seguano un protocollo estremamente preciso.
E nello stato vegetativo?
Nel caso stato vegetativo può succedere che il paziente non presenti una risposta motoria allo stimolo, e di conseguenza non riesca a esternare un suo elaborato mentale. Però negli esperimenti di Adrian Owen, per esempio, la risonanza magnetica funzionale ha mostrato che una persona in stato vegetativo era in grado di svolgere compiti mentali complessi, per i quali si attivavano le stesse aree cerebrali che si attivano nelle persone normali. Il fatto che ci siano risvegli dopo anni può esser dovuto ad un “rimaneggiamento” delle sinapsi cerebrali, per cui vengono a riformarsi connessioni interrotte e il paziente riesce a mostrare un nuovo funzionamento della sua attività cerebrale. Come se ci fosse un “rimodellamento” che richiede parecchio tempo. È una strada di ricerca molto interessante e che si dovrà approfondire. Sicuramente quando a Eluana è capitato l’incidente queste metodiche non c’erano.
Qual è la sua conclusione?
Che spesso c’è una difficoltà oggettiva a verificare lo stato effettivo di un paziente. Normalmente cerchiamo una verifica dello stato di veglia attraverso una risposta motoria, ma se un paziente non è in grado di muoversi, la conclusione non è che merita di morire, ma che non possiamo avere un giudizio completo. E poi ci può essere il caso in cui il paziente non è abilitato a rispondere con movimenti, e quindi lo si “etichetta” in maniera impropria. È chiaro che non sappiamo ancora troppe cose.
Cosa farebbe se dovessero chiederle di interrompere l’alimentazione e l’idratazione ad un paziente in stato vegetativo?
Farei obiezione di coscienza. Quando una risoluzione del genere è stata eseguita per Terri Schiavo, la donna è andata avanti soffrendo per quindici giorni. È una cosa che considero disumana e mi rifiuterei.
Come avrà saputo, a Torino, dopo un intervento chirurgico eseguito dall’équipe del professor Canavero nel 2007, una ragazza di vent’anni si è risvegliata dallo stato vegetativo e ora, dicono i medici, “è in grado di nutrirsi e obbedire a ordini”. Cosa risponde a chi obietta che in fin dei conti quello che si è ottenuto è una vita appena cosciente e lontanissima dalla “normalità”?
È lo stesso, identico problema per cui non si dà dignità al feto. Se l’autodeterminazione decide totalmente il valore della vita, diventa anche automatico dire “quello non batte ciglio ed è immobile, quindi che dignità di vita ha?”. La mia opinione è che se uno è lasciato solo a vivere un’esperienza del genere, crolla, è schiacciato. Va aiutato dalla legge, che non vuol dire dare il semaforo verde per uccidere il paziente, ma la possibilità di ricoverarlo o tenerlo a casa, con persone che aiutano la famiglia, in modo che essa possa continuare ad avere una vita normale. Invece questi pazienti vengono mandati a casa e la famiglia si ritrova distrutta dalla fatica, psichica e fisica, che lo sforzo richiede.
Qual è, da questo punto di vista, la sua esperienza personale?
Ho pazienti che per esempio a seguito di un grave incidente stradale sono diventati tetraplegici. Possono non avere una respirazione autonoma perché la lesione è molto elevata… In questi casi o si dà un motivo per vivere, oppure si arriva a dire “ma come, avete fatto rianimazione e poi la situazione è questa?”. Diventa importante capire a cosa uno è legato, a quale opzione di fondo sulla vita e sulla morte. Ti senti interrogato da chi ti giace di fronte: “Perché mi hai rianimato? Solo per mettere in atto un tuo tecnicismo? A me hai pensato?”. Queste situazioni non si risolvono con lo stacco del sondino, ma con la capacità corale di accogliere persone in questo stato, stando loro accanto.
Poco prima di Natale il prof. Dolce – che visitò Eluana nel gennaio dello scorso anno – ha dichiarato che la donna conserva il riflesso della deglutizione e della tosse e che sarebbe anche ripreso il ciclo mestruale. Come commenta queste notizie? Come incideranno secondo lei sulla vicenda?
Questa notizia è sicuramente positiva: ora si potrebbe provare a capire se è possibile alimentarla per “via naturale”. Certo non c’è da aspettarsi che riesca a farlo in maniera sufficiente, ma questo fatto rimane positivo. Credo che questo fatto, però, prima di tutto serva a rendere evidente una volta di più una cosa, e cioè che non ci troviamo davanti a un malato terminale, ma a una donna colpita da una gravissima disabilità che è possibile accudire e che non è destinata a morire a causa di questa disabilità. Anche la ripresa del ciclo mestruale, che non di rado si interrompe anche per mesi in soggetti colpiti da un grave trauma celebrale, è conferma di questo: che Eluana non è un malato terminale. Non avendo visitato personalmente Eluana, non posso dire che questi siano segni di una sua ripresa, ma di certo sono segnali di cui si deve tener conto.