La cooperazione internazionale è certamente fatta di piani, di movimenti di denaro, donazioni, C-130 carichi di generi alimentari o medicinali, ma soprattutto è fatta di persone. Certa – e buona – cooperazione è fatta di volti perché agisce su fatti concreti, si mescola tra i volti di chi assiste per condividerne bisogni speranze e aspirazioni, senza lo snobismo di chi pensa di “sistemare le cose” in virtù di un progetto buono, ben calibrato e adeguatamente finanziato. La sfida è vivere una quotidianità, anche nelle situazioni estreme, dove guerra depressione economica o assenza di cultura di base sembrano dire che non ne vale la pena. Dibattendosi tra i mille fastidi di ogni giorno, tra le antipatie, la fatica, la fame, o il dramma, come tra le gioie grandi e piccole di una amicizia che porta i suoi frutti. Di questi volti, di questi incontri, l’associazione Avsi ne può contare a centinaia. In occasione della campagna delle Tende, ilsussidiario.net vuole dare questa possibilità di incontro anche ai suoi lettori. In questi giorni in tante città e cittadine italiane può capitare di vedere delle manifestazioni benefiche che si intrecciano tra mostre e concerti a sostegno di queste persone e in particolare di quattro opere di cooperazione nel mondo. E’ la possibilità di incontrare chi, come Isabel, Fiammetta, Edoardo, Maya e Miranda ha deciso di non dedicare la propria vita a un progetto personale, ma si è aperto nel mondo all’incontro con gli altri. Ecco, in video e per iscritto, le loro esperienze.



Isabel Maria Salazar lavora per la Fundacion Sembrar a Quito, capitale dell’Ecuador, nel poverissimo quartiere di Pisulli. La sua fondazione è partner locale di Avsi, una realtà approdata in questo paese dal 2002, che per Isabel ha voluto dire il volto preciso e amico di una ragazza italiana, Stefania Famlonga. Il lavoro di ogni giorno è a stretto contatto con il bisogno più essenziale, a cominciare da quello dei bambini, il più delle volte senza un padre e con una madre che non ha le forze per aiutarli a crescere ed educarli. «Il metodo di Avsi – ci racconta Isabel – pone al centro del suo operare la persona e il “fare con”, lavorare cioè assieme alle persone che si incontrano, senza sostituirsi a loro e senza imporre uno schema. Per aiutare il bambino è necessario accompagnare la madre, la prima educatrice del proprio figlio. È la mia esperienza di mamma a insegnarmi quotidianamente che il bambino ha bisogno della propria madre e che non ci si può sostituire ad essa. Se si possiede un minimo di lealtà si vince questa tentazione, che può emergere nel caso ci si accorga dei limiti di volontà o di capacità dell’altro». Da questo metodo e da questo realismo è nato a Quito un centro “prescolar en la casa” in cui i bambini vengono accolti, degli asili famigliari nei quali alcune mamme vengono formate per accudire i figli di quelle che hanno un lavoro. Altre ancora vengono aiutate a realizzare piccole attività, come ad esempio quella di cucitura. Una cascata di tentativi mirati di risposta ai bisogni che man mano si incontrano. «“Lo sviluppo ha un volto” – prosegue Isabel – è il titolo della campagna delle Tende Avsi di quest’anno e nel mio caso ha il volto di Amparito, una donna che ha dovuto convivere fin dall’inizio con il dolore dell’essere lasciati sola con due figli e di vedere ucciso il proprio fratello. “Partire dal positivo”, un altro punto del nostro metodo che spesso ci ripetiamo e che lei mi ha insegnato, significa affermare che un positivo da cui partire c’è sempre e questo vale per tutti. Per una mamma a cui sono rimasti solo due figli, vuol dire ripartire da quello. Fino a quando non si incontrano storie e bisogni personali si ha un’idea astratta della povertà. Quando questo succede però, la ragione è affettivamente compromessa con un altro che esiste e questo vale anche per chi viene aiutato. Per i bambini sostenuti a distanza è diverso sapere che c’è qualcuno che gli vuole bene e gli scrive e che non sono oggetto di un aiuto generico da parte di uno sconosciuto».



«Fino a quando di un Paese o di una situazione vediamo solo i punti deboli, gli aspetti negativi è impossibile fare un’azione che sia incisiva, perché vuol dire che in quel Paese non ci riconosciamo. Mentre qualche cosa positiva, per quanto piccola, la dobbiamo trovare per cominciare. E di solito siamo noi a non vedere che c’è». Fiammetta Cappellini commenta così la difficoltà iniziale che può prendere chiunque, che come lei, sia cooperante espatriato di Avsi. Da tre anni Fiammetta lavora ad Haiti dove si è trasferita col marito e il figlio per essere a capo di un progetto dell’Unione Europea. In seguito è divenuta capo missione e rappresentante Avsi del Paese. Segue, organizza e coordina tutti i progetti volti allo sviluppo dell’isola, una fra le nazioni più povere e disagiate del mondo. Commentando il titolo della campagna tende di quest’anno non può non venirle in mente il volto dei primi fra i ragazzi che aiutò venendo ad Haiti. Oggi sono per lo più assistenti sociali. Provenivano da Cité Soleil, uno dei luoghi più malfamati e mal frequentati del Paese. «Quando quest’anno si è abbattuto su di noi l’uragano metà dell’isola era in ginocchio. I primi a muoversi sono stati proprio i ragazzi di Cité Soleil, che noi avevamo aiutato a uscire fuori dalla criminalità e dalla droga. Hanno ritrovato se stessi e il senso del proprio vivere. Ancora oggi si trovano nelle zone disastrate e offrono il proprio aiuto alle vittime del ciclone. Questo fatto, oltre a colpire tutti noi, ha sorpreso tutti gli haitiani che, fino a poco tempo fa, consideravano tutti gli abitanti di Cité Soleil come la feccia di tutta la popolazione». Ma come è stato possibile incidere così a fondo in questo accidentato tessuto sociale? «Siamo partiti dall’idea» spiega Fiammetta «di non venire ad Haiti con l’intenzione di fare la parte dei salvatori, bensì cercando di motivare i meno fortunati a rimettere in pista la propria vita, cercando di renderli protagonisti. Siamo venuti incontro alle esigenze totali delle persone che ci trovavamo di fronte, a prescindere dal protocollo di accordo previsto dal nostro progetto».



«Sono una ragazza albanese e mi occupo del Centro di Formazione permanente, qui a Tirana. È un progetto che si sta realizzando in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri italiano». Così si presenta Miranda Mulgeci, coordinatrice del centro che oggi in Albania offre corsi di aggiornamento socio educativi per insegnanti di scuole primarie, scuole materne e centri diurni. Ma anche corsi di management, informatica e perfino taglio e cucito. Un progetto poliedrico che, a quanto risulta, ha dato e continua a dare parecchi frutti. «Sono sempre di più le persone che frequentano i nostri corsi. L’aspetto più affascinante è la convivenza che si è venuta a creare fra individui appartenenti a etnie diversissime e differenti religioni». Ma anche da un punto di vista contenutistico i risultati sono di eccellenza. «Cerchiamo di coinvolgere la popolazione locale. Il concetto è quello che i nostri formatori siano tendenzialmente gli albanesi stessi. Nel nostro progetto vogliamo che i beneficiari siano non solo i destinatari dei corsi, ma anche i loro organizzatori». Non mancano episodi a confortare questa scelta. Il primo fra tutti è la testimonianza di un maestro che ha ammesso di aver imparato a conoscere davvero i bambini dopo aver frequentato il Centro di Formazione. Questo nonostante lavorasse già da tre anni in una classe delle elementari. «Sembra una cosa da nulla» commenta Miranda, «ma per noi non è per nulla scontato chiedersi come ci si debba rapportare gli uni gli altri. Dopo cinquant’anni di comunismo, che con la pretesa di rendere uguali gli uomini li ha invece solo livellati e appiattiti, la gente sta ricominciando a concepirsi davvero uguale e dotata di diritti insindacabili. Questo è stato possibile perché noi abbiamo cominciato a parlare di persone e non di “unità”». Una “rivoluzione” che ha avuto effetti anche a livello statale. «Noi non collaboriamo soltanto con le realtà che sono comprese nel progetto, ma cerchiamo di allargare il nostro modus operandi agli attori locali, soprattutto gli attori istituzionali o altri enti legati a soggetti pubblici. L’apprezzamento dei nostri corsi è stato così alto che persino gli impiegati statali hanno partecipato». Lo sviluppo ha un volto? Per Miranda sì. «È il volto di tutti coloro che ogni giorno desiderano capire sempre più cosa significhino davvero le parole “educazione” e “libertà”».