L’orrore e la pena che suscitano la vicenda dell’uomo che in una cittadina austriaca ha segregato e violentato per anni una figlia, avendone sette figli, non possono avere limite. Quel che ha fatto Jozef Fritzl in mezzo alla generale indifferenza e alla cecità di parenti, vicini e istituzioni è orribile. Una mente malata, preda di fantasmi.
Eppure dopo essere riemersa – invecchiata dentro e fuori – da quell’inferno, Elizabeth avrebbe dichiarato, stando ai giornali: “Sapevo da bambina che gli esseri umani sono liberi. Non sono di nessuno. Non c’è una prigione che può incatenarli per sempre”. E allora ci viene da aggrapparci a queste parole, dette da una donna che ha vissuto la peggiore delle vite possibili, vedendosi morire addosso tre figli dell’incesto, e tre strappati via da lui che risaliva al piano superiore. Ci viene da afferrare, mentre l’orrore ci farebbe precipitare, il filo di questo mezzo ragionamento. Di questa strana evidenza che lei dice di aver sempre avuto, anche quando i suoi occhi han dovuto vedere l’insopportabile: l’uomo è libero. Neppure la sua ributtante clausura, neppure la sua schiavitù per così dire centuplicata, le ha strappato dalla bocca quelle parole. Sembra quasi che Elizabeth sia risalita da quell’inferno per dircele. Sembra quasi che sia risorta da quella cloaca di male, di deviazione e di impensabile disprezzo, proprio per dirci queste parole. Come se ci fosse bisogno, in mezzo alla dura generale distrazione, di un’apparizione del genere. Di un angelo così sperduto. Di una ambasciatrice così estrema. Come se ci fosse bisogno – tale e tanta è la confusione intorno al cuore della natura umana – di una resurrezione il più vicino possibile a una vera e propria resurrezione, ad un vero e proprio sfuggire alla morte e alla peggiore delle morti che è una vita ridotta a puro orrore. Per ricordarci chi siamo. Come siamo. Capaci di orrore infinito. Ma anche dotati di libertà che non si spegne mai. Come se ci fosse stato bisogno anche di questo, del delirio infame, e soprattutto della risalita di lei, per scuoterci a pensare quello che siamo. Elisabeth è l’angelo violentato. Le sue parole il saluto che ci dovremmo ripetere ogni mattina, entrando in quelle che pensiamo siano le nostre prigioni e invece sono le occasioni della nostra libertà. Lo dice lei, con uno sguardo che non riusciamo a sostenere. Con una persuasione che ci fa sanguinare.
Così che la protagonista ora diventa lei, grazie a queste parole. Lei che dice di aver sempre saputo che la “forte” era lei e il debole lui. Quella che abbiamo chiamato schiava sapeva di esser più forte del suo padrone. Angelo dell’inversione. Angelo più forte di ogni perversione. Anche al grado più basso e bestiale dell’umanità, o meglio al grado che nemmeno possiamo più chiamare umano se non a costo di morderci le labbra, ecco, anche laggiù ha resistito quella evidenza: l’uomo è libero, non coincide con la situazione in cui si trova, fosse anche la peggiore possibile. E’ un annuncio forte. Controcorrente. Che smentisce, dal buio di uno scantinato della morte, tutti gli psicologi mollemente accomodati negli studi televisivi, o sulle pagine dei giornali. Che smentisce le tante immagini idiote di libertà che ci vengono propinate. Che rompe, con la imprevista e violentissima presenza di lei, ogni riduzione dell’uomo a quel che ha o a quel che riesce a realizzare. Lei, che non ha realizzato niente, che è stata solo usata e nel più nefasto e viscido dei modi, che ha subito ogni oltraggio, ora oppone la forza della sua certezza: l’uomo è libero. Lo dice dal fosso dove pensavamo di trovare solo menzogne, solo deviazioni, solo perversioni dell’umano. Da lì, invece, lei è risalita con una perla. Che le giovi ancora pensarlo, e sperimentarlo, ora che la sua vita deve reiniziare. E che giovi a noi, che restiamo esterrefatti, con le mani lungo i fianchi.