Il decreto legge Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica approvato dal Senato in questi giorni, presenta degli aspetti positivi.

Innanzi tutto si deve prendere atto che l’attuale Governo si è contraddistinto fino ad ora per aver fatto seguire agli “slogan elettorali” effettivi atti di riforma che cercano di rispondere ai problemi più sentiti e avvertiti come urgenti dai cittadini: tra questi, certamente, quello della sicurezza.



Molte previsioni all’interno del decreto in oggetto sono sicuramente apprezzabili (per brevità se ne indicano solo alcune):

L’inasprimento delle pene per il reato di omicidio e lesioni colpose in seguito a violazione delle norme sulla circolazione stradale, commesso da persona in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti; nello stesso senso, la ripristinata sanzione penale in caso di rifiuto a sottoporsi ad accertamento dello stato alcoolico o il sequestro e la successiva confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato di guida in stato di ebbrezza;



L’ampliata possibilità di ricorrere al rito direttissimo e al giudizio immediato: gli unici processi che, di fatto, nel nostro sistema, funzionano e permettono di pervenire in tempi rapidi all’accertamento delle responsabilità;

L’abolizione del cosiddetto patteggiamento in appello, se riuscirà ad anticipare al primo grado la scelta dei riti alternativi (evitando la celebrazione di lunghi e costosi dibattimenti) e, comunque evitando di ottenere esagerati sconti di pena in secondo grado, in particolare per i reati più gravi e di effettivo allarme sociale;

La previsione dell’aggravante dell’illegale presenza sul territorio nazionale (che, per quanto discutibile possa essere la sua applicazione ad ogni tipologia di reato, è in linea con l’attuazione della lotta all’immigrazione clandestina), anziché l’introduzione del reato di “clandestinità” che oltre a creare enormi problemi di ordine pratico rendendolo di fatto inapplicabile, avrebbe presentato seri problemi di costituzionalità;



La previsione della confisca dell’immobile ceduto a titolo oneroso al cittadino straniero irregolare: norma di sicura efficacia deterrente, anch’essa il linea con la lotta all’immigrazione clandestina.

Il descritto inasprimento delle pene per alcuni reati che negli ultimi anni hanno destato particolare allarme nella cittadinanza, si scontra però con un sistema processuale che necessiterebbe di una profonda riforma per essere in grado di funzionare e di rendere veramente efficaci le novità introdotte: ma, purtroppo, da decenni assistiamo ad una modalità di legiferare, almeno nell’ambito penale, che rincorre l’emergenza (il sistematico ricorso allo strumento del decreto legge ne è la conferma) e non è in grado di affrontare i veri nodi della giustizia penale e di proporre le grandi riforme condivise di cui si avverte sempre più la necessità e l’urgenza.

Ed a proposito di mancate riforme condivise ed al contesto politico in cui si colloca il provvedimento di cui si discute, non si può non affrontare il discusso emendamento cosiddetto “blocca-processi”, che prevede la sospensione per un anno dei processi (nella fase compresa tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado), per i reati con pena edittale non superiore a dieci anni e commessi prima del 30 giugno 2002.

L’emendamento viene giustificato con la necessità di dare precedenza assoluta ai procedimenti relativi ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo o comunque superiore a dieci anni, ma non vi è chi non veda la debolezza di detta giustificazione, a fronte delle enormi ricadute in termini di funzionamento del già dissestato sistema processuale e delle cancellerie (che sarebbero ulteriormente ingolfate da migliaia di notifiche, da riassunzioni di processi sospesi, da ricomposizioni di collegi, ecc.) e in termini di violazione del principio della ragionevole durata del processo, sia per i cittadini imputati, sia e soprattutto per le parti civili costituite, ossia i cittadini offesi da reati anche gravi; introducendo così il legittimo sospetto che l’emendamento in realtà abbia altre finalità e ottenendo l’effetto di aver inasprito il dialogo politico e istituzionale.

Tale situazione ripone prepotentemente il problema del conflitto tra politica e magistratura, che affligge ormai da quasi un ventennio il nostro Paese: non è possibile attuare le indispensabili importanti riforme di cui si è accennato se non si risolve questo nodo cruciale per la nostra democrazia.

A fronte dell’indipendenza della magistratura, infatti, è altrettanto indispensabile garantire “l’indipendenza” e l’autonomia della politica: altrimenti è inevitabile che uno dei due poteri, quello politico ovviamente, possa essere indebitamente intralciato, se non “ricattato” dall’altro.

I Costituenti avevano ben presente questo rischio, quando nel 1948 introdussero il secondo comma dell’articolo 68 della Costituzione che prevedeva, per evitare il fumus persecutionis, l’autorizzazione a procedere da parte di Camera e Senato per sottoporre a processo un parlamentare. L’immunità parlamentare così concepita è stata cancellata nel 1993, sull’onda emotiva e “rivoluzionaria” di tangentopoli: da quel momento è iniziato il conflitto tra i due poteri e lo scontro tra giustizialisti e garantisti e ancora oggi, a distanza di quindici anni, la nostra democrazia, la necessità delle riforme in tema di giustizia e l’azione di Governo sono bloccati dallo stesso perdurante e lacerante conflitto.

I nostri padri Costituenti, quando introdussero il “filtro” tra i due poteri, lo fecero sulla base di un ragionamento elementare: il cittadino eletto a governare il Paese, soprattutto se ricopre un’alta carica istituzionale dello Stato, non è un cittadino qualunque (pur essendo anch’egli soggetto alla legge), ma rappresenta milioni di elettori e una concezione di governo della società. L’azione giudiziaria nei suoi confronti, quindi, se non è più che limpida e giustificata (da qui la necessità della garanzia del vaglio del Parlamento con l’autorizzazione a procedere) può essere strumentalizzata ed andare a colpire ciò che lui rappresenta oltre se stesso.

È evidente che c’è bisogno di ripristinare questo istituto, nelle forme che si ritengono più adeguate, soprattutto in un ordinamento giudiziario come il nostro dove non esiste, di fatto, un controllo della responsabilità dei magistrati, in nome di un’esasperata ed errata concezione di indipendenza.

Del resto l’immunità, sia essa per i parlamentari, piuttosto che per le alte cariche dello Stato, vige in tutte le democrazie occidentali più vicine alla nostra, anche come cultura giuridica (si pensi ad es. alla Spagna, alla Francia, alla Germania, ecc.): non si comprende perché da noi sia rimasta immutata la situazione dal 1993, pur a fronte delle continue lacerazioni che abbiamo vissuto e a cui stiamo ancora assistendo, con grave danno per i cittadini e il bene comune.

Non resta che auspicare che questa ennesima triste pagina della nostra democrazia faccia finalmente riflettere sul tema proposto (che meriterebbe ben più ampie e autorevoli riflessioni, ma che mi sono permesso di accennare), affinché si trovino le soluzioni istituzionali adeguate per porre fine ai conflitti e permettere a chi ha ricevuto il mandato del popolo di governare serenamente nell’interesse del Paese.