Il giudizio che noi tutti esprimiamo sulla sentenza che autorizza a non dar più da mangiare e da bere ad Eluana Englaro può essere, alla fine, niente di più che l’espressione di un’opinione personale. C’è chi è favore, e c’è chi è contro.
Ma le cose cambiano se il giudizio arriva da chi, per condizione personale, vive più da vicino il dramma di Eluana. Mario Melazzini, medico dalla carriera brillante, a partire dal 2002 ha incominciato a percepire che il suo corpo non rispondeva più alle sue sollecitazioni. Nel giro di un anno la diagnosi: sclerosi laterale amiotrofica. Ora anche lui, come Eluana, non può mangiare in modo autonomo ed è alimentato artificialmente, con una sonda endogastrica.
E se dice che la sentenza di Milano è profondamente ingiusta, merita quantomeno di essere ascoltato più di tanti opinionisti. 



Dottor Melazzini, qual è stata la sua reazione di fronte a questa sentenza dei giudici di Milano? 

Con tutto il rispetto per la magistratura, mi trovo in totale disaccordo sulle motivazioni che la Corte d’Appello di Milano ha emesso nei confronti della vicenda di Eluana Englaro. Per due motivi. Innanzitutto il corpo di Eluana viene definito semplicemente come vita biologica, e questa è una riduzione inammissibile. In secondo luogo perché la sentenza si rifà a qualcosa che in passato sarebbe stato detto da Eluana. Ma i ragazzi ventenni, si sa, vedono la propria vita in un determinato modo, e una visita ad un amico in un uno stato grave, di coma, può creare un grande impatto emotivo, e pensieri negativi in merito all’ipotesi di dover vivere dipendendo da uno strumento anche solo per respirare. Basare una sentenza solo su quello che qualcuno ha sentito dire non mi sembra una cosa accettabile. 



Eluana sembra però trovarsi in uno stato irreversibile, immutato da ben sedici anni: tenerla in vita non è anche questa una forma di accanimento? 

Eluana si trova in uno stato vegetativo permanente, non in coma irreversibile: per definire il coma irreversibile ci sono dei parametri strumentali e clinici ben precisi. Eluana è una persona che si trova in una determinata condizione, ed è alimentata e idratata artificialmente: definire questi supporti di sostegno vitale, quale l’idratazione e l’alimentazione, strumenti di accanimento terapeutico è una cosa che mi ferisce molto, come medico, come uomo, come malato.



Dunque secondo lei con questa sentenza si legittima inequivocabilmente un atto di eutanasia? 

Accompagnare a morte una persona totalmente stabile dal punto di vista clinico lo definisco esattamente un atto di eutanasia, in qualunque modo venga fatto. Omicidio è una parola che io non sono in grado di utilizzare, ma definirlo eutanasia è la realtà. Utilizzare il verbo «accompagnare», come fa la sentenza, significa ritenere che questa persona, essendo in un tale stadio di vita biologica, non sia in grado né di sentire, né di provare sensazioni. Ma forse bisognerebbe chiedersi che strumenti si hanno per giudicare che questa persona, privata dei liquidi, privata dell’alimentazione, possa non provare dolore anche fisico. Quindi non ci sono altri modi per definire questo atto se non legalizzazione dell’eutanasia. E questo mi fa molta paura. 

Lei ha parlato di dignità della vita: si sente spesso parlare con leggerezza di vite non degne di essere vissute, a proposito di condizioni estreme di malattia. Come reagisce di fronte a questo? 

Con un sorriso dispiaciuto. Ipotizzare che determinate condizioni di salute o di disabilità possano non essere compatibili con una vita degna di essere vissuta è una concezione che definirei da benpensanti, e che personalmente mi offende. Lo pensavo anch’io, nel mio banalissimo percorso di vita: da uomo sano non ipotizzavo che la totale dipendenza dagli altri potesse essere conciliabile con la dignità della vita. Invece è così. 

Com’è possibile avere una concezione così assoluta della dignità della vita? 

Occorre pensare che alcune condizioni, patologie o disabilità che comportano la totale dipendenza dagli altri o da alcuni strumenti sono perfettamente conciliabili con una vita dalla qualità buona. Occorre fare un passo indietro, e chiedersi quando la vita deve essere vissuta. La dignità della vita, infatti, ha a mio parere un carattere ontologico e non può dipendere da una “qualità” misurata solo in termini utilitaristici. Non si può pensare che essere uomo, essere persona degna di vivere, possa diventare una sorta di patente a punti: se hai tutte le funzioni sei degno; se perdi le funzioni perdi la dignità. Finché un bel giorno ti viene tolta la patente, e altri possono decidere per te, avendo la presunzione di dire che quella vita non è degna di continuare. Non lo si può accettare. 

Questa sua concezione così profonda del valore della vita, in qualunque condizione, è condivisa anche dalle altre persone che vivono la sua stessa malattia? 

Come malato di sclerosi laterale amiotrofica (SLA) mi trovo quotidianamente a confronto con altri malati che vivono dipendendo da strumenti artificiali. Molti di essi muovono solamente gli occhi. Ma le assicuro che hanno una grandissima dignità: loro stessi me lo dicono, anzi, noi ce lo diciamo, spesso, indipendentemente da tutto. 

Torniamo alla sentenza: un passaggio molto critico, e molto criticato, è quello in cui vengono date precise istruzioni su come operare concretamente l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione, per non provocare dolore a Eluana. Come giudica questo elemento? 

Questa è una sentenza con forti accenti di pietismo: sembra di essere tornati al tempo dei medici dei lager nazisti, che per pietà sopprimevano le persone. Pur con tutto il rispetto dello stato d’animo della famiglia di Eluana, bisogna però ribadire che ciò che i magistrati permettono è un atto di eutanasia. Come medico io ravvedo solo questo. La sentenza della Corte d’Appello dà poi, come ora si accennava, indicazioni per un accompagnamento che viene definito “dignitoso”, dicendo addirittura – e questo è veramente un passaggio di pessimo gusto – che bisognerà accompagnare Eluana a una morte senza dolore, in particolar modo provvedendo a “umidificare le mucose”. Proprio così. E sa cosa mi viene in mente? Mi viene in mente Cristo sulla croce: a lui passarono sulla bocca una spugna imbevuta di aceto. 

Come medico cosa pensa di quei suoi colleghi che si affrettano a dare la propria disponibilità a procurare la morte? Era già successo con il caso di Welby, ora si verifica di nuovo. Come giudica questa “premura”? 

Io non mi permetto di giudicare l’atteggiamento degli altri, ma mi prende una grande tristezza come medico nel vedere colleghi con un così grande fervore nel volersi mettere a disposizione, come se aspettassero di esprimere la propria professionalità grazie a una sentenza di un Tribunale. Forse non hanno ben chiaro quali siano gli obiettivi della professione medica, e non hanno letto il codice deontologico. Ma forse l’altra cosa che incide è la mania di protagonismo, che nell’essere umano non manca mai. 

Questi episodi generano sempre un dibattito pubblico: cosa pensa del modo con cui se ne discute? 

Purtroppo, come spesso accade nel nostro Paese, si sta tristemente facendo di questo caso lo strumento di un’ideologia. Ma qui non ci sono né vincitori né vinti: c’é il dramma di Eluana. C’è poi anche il dramma di tutte le famiglie dei malati in stato neurovegetativo, e non solo, che hanno bisogno di essere supportati nell’assistenza ai loro cari. Queste sono le cose di cui bisognerebbe discutere.
 

(Foto: Imagoeconomica)

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