Caro direttore,
Nella vicenda drammatica di Eluana Englaro, è stato troppo frettolosamente eluso ed archiviato l’appello di suor Albina Corti, la superiora delle religiose che da quattordici anni quotidianamente assistono la giovane. La sua proposta («Lasciate Eluana a noi») è stata con tutta evidenza giudicata banalmente «umanitaria», o – peggio – una variante irricevibile della fermezza cattolica nel difendere la cultura della vita. Invece nella sua (autentica) semplicità, l’appello si pone in modo nuovo, complesso, altamente sfidante sul piano bioetico, giuridico e quindi ampiamente politico-culturale. Sarebbe un errore inaccettabile ignorarlo solo perché scomodo o non inscritto nelle tradizionali dispute ideologiche o strumentali sul tema. Può essere invece utile – per tutti – rifletterci sopra, includendolo in quei fatti o atti della convivenza umana che risultano più comprensibili e potenzialmente fruttuosi per il bene comune se accolti in quei “nuovi modi”, in quei tentativi che chiamiamo ormai usualmente sussidiarietà. La quale, per definizione, non è “aut-ut”, ma “et-et”.
Suor Albina non contesta in nulla il padre di Eluana. Non gli nega la stanchezza, lo strazio spirituale. Lo comprende in tutto: anche, eventualmente, nella volontà di realizzare una visione laica dell’esistenza. Gli si oppone – forse – solo nell’intento di adempiere un “testamento biologico di fatto” di Eluana: il ricordo di parole confidate a un’amica guardando in tv un servizio sull’analogo dramma dello sciatore azzurro Leonardo David.
Suor Albina non respinge neppure la pronuncia del magistrato: cioè il giudizio “qui e ora” dell’istituzione delegata da una società democratica ad applicare il cosiddetto “diritto positivo”. Non disconosce al tribunale il potere legittimo di dare ragione alla pretesa del padre di Eluana. Di interpretare cioè la norma in vigore, con professionalità e con attitudine a distillare una decisione ritenuta «equa» sul piano tecnico e in un determinato frangente storico.
Ponendosi con realismo e spirito di accoglienza nei confronti sia dell’umanità del padre di Eluana sia della professionalità/istituzionalità del magistrato, suor Albina non rinuncia però a parlare, ad agire, a far parlare e agire con sé una parte della società civile. Se un padre annientato e straziato non riesce più ad occuparsi di una figlia che vive in stato vegetativo, o anche solo a visitarla: suor Albina dice: và in pace, me ne occupo io, la curo io ogni giorno. A un magistrato che dice: se il padre di Eluana me lo chiede, io autorizzo la sospensione dell’alimentazione, suor Albina replica: io da quattordici anni sono una stretta congiunta di questa persona, a me interessa che continui a vivere.
Pago io, garantisco io di persona che abbia cure adeguate, dignitose, continue. Di fronte a un «mistero di dolore» (Eluana sta vivendo una sofferenza inenarrabile, lasciatela andare in pace) io mi sento di difendere un «mistero di speranza» (Eluana sta vivendo la sua vita, ha diritto di continuarla). Voi siete la famiglia e lo Stato, io sono una porzione della società civile: ascoltatemi. Io vi capisco, ma ho diritto che voi cerchiate di capire me, che allarghiate il vostro sguardo sulla realtà, per quanto offuscato dal dolore o vincolato dalla tecnica.
Se il magistrato avesse saputo della disponibilità di suor Albina, il suo giudizio avrebbe potuto essere diverso? Anzi: il suo giudizio avrebbe “dovuto” essere diverso? La prossima volta il prossimo magistrato dovrà tenerne conto? Il magistrato ha risposto a una pretesa argomentata del padre o ha emesso un’argomentata “condanna a morte”? La pretesa del padre era: liberate me da un peso insopportabile o liberate Eluana da un peso che io ritengo insopportabile per lei? In che misura suor Albina è invece legittimata a proporre un “modo diverso” di garantire a Eluana la vita e al padre di uscire da questa vicenda? In che misura la società può essere legittimamente considerata “sussidiaria” a una famiglia spezzata dal dolore o perfino a una magistratura che formula sentenze “tecniche”?
Non da ultimo: se vi fa orrore un feto gettato morto in un cassonetto e preferireste certo che fosse un neonato vivo affidato a un istituto di suore, perché preferite che una giovane donna in coma sia lasciata morire di fame mentre la comunità di suore che già l’assiste è pronta a farla vivere ancora?
Sia che Eluana resti in vita, sia che non lo resti, suor Albina ha diritto a una risposta.