L’interrogativo circa la possibilità di interrompere, nel protrarsi dello stato vegetativo permanente, dell’idratazione e dell’alimentazione (quasi sempre attuate mediante un intervento medico) esige di considerare la peculiarità, rispetto agli atti terapeutici, del tipo d’intervento in discussione: sebbene, per l’appunto, esso di regola venga posto in essere, ma non necessariamente, attraverso il coinvolgimento di personale sanitario.
I soggetti in stato vegetativo permanente sono esseri umani viventi, ma non sono comunicativi e, forse, risultano del tutto incoscienti: tuttavia, circa la sussistenza di stati profondi della psiche a monte dei loro movimenti, della mimica del loro volto, del ritmo sonno-veglia, nessuno può dire l’ultima parola. Le speranze di «risveglio» dopo anni di stabilità in tale stato sono minime, ma non possono essere escluse in radice.
Essi, dunque, vivono una condizione di estrema povertà esistenziale (possiamo dire di handicap particolarmente grave), ma la vivono senza l’ausilio di strumenti intesi a contrastare, stabilizzandolo, il loro stato patologico o a lenire condizioni di sofferenza, vale a dire di strumenti qualificabili come terapeutici. Hanno tuttavia bisogno, per non morire, che siano loro assicurate le condizioni generalmente indispensabili alla vita di ciascun essere umano.



L’idratazione e l’alimentazione, in particolare, costituiscono fattori di cui ogni persona, anche sana, necessita per vivere. Non rappresentano un atto in grado di incidere sullo stato patologico e, conseguentemente, non surrogano una funzione dell’organismo compromessa dalla malattia. Dunque, non costituiscono una terapia. In tal senso, fanno parte delle cure che devono restare assicurate anche al malato in fase terminale, pur nel momento in cui ogni terapia sia stata interrotta. Il ricovero in hospice di un malato terminale non autorizza affatto – salve le condizioni particolari di cui più oltre si dirà – l’interruzione dell’alimentazione e soprattutto dell’idratazione. Né, tantomeno, il carattere terminale delle condizioni di un paziente può essere legittimamente indotto proprio dall’interruzione di tali prestazioni.
Del resto, i malati in condizione vegetativa potrebbero essere idratati e alimentati anche per via ordinaria: il che viene evitato solo per impedire più facili complicanze connesse alla somministrazione orale in quello stato, come pure al fine di rendere più agevole la procedura e più facilmente controllabili i dosaggi.

Simile problematica, peraltro, non è approfondita nella sentenza n. 21748/2007 della Cassazione civile relativa al caso di Eluana Englaro, che si limita a evidenziare un’ovvietà: «Non v’è dubbio che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario. Esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati […] implicanti procedure tecnologiche».
A parte l’ultima affermazione, in sé riferibile a qualsiasi prodotto dell’industria agro-alimentare, il fatto è, tuttavia, che non tutto quanto venga posto in essere da un medico assume per ciò solo carattere diagnostico o terapeutico. E da ciò deriva, secondo il parere approvato in materia a maggioranza, nel 2005, dal Comitato Nazionale per la Bioetica, che «l’idratazione e la nutrizione di pazienti in stato vegetativo permanente vanno ordinariamente considerate alla stregua di un sostentamento vitale di base».



Tutto questo evidenzia come l’interruzione di tali apporti non costituisca la rinuncia ad atti sproporzionati di carattere terapeutico. Di conseguenza, essa non può essere oggetto né di un’iniziativa delle persone che abbiano in cura il malato in stato vegetativo permanente, né di una richiesta formulabile per il futuro attraverso dichiarazioni anticipate: la condotta di cui si discute comporterebbe, infatti, il prodursi di una relazionalità del medico (o altro soggetto) verso il malato per la morte, attraverso la causazione della medesima in forma omissiva: un tipo di relazionalità che non è mai ammessa dall’ordinamento giuridico e che va contro gli stessi fini dell’attività medica indicati dall’art. 1 del codice deontologico.

Le conclusioni sarebbero in ogni caso le medesime anche ove si negasse la natura non terapeutica dell’idratazione e dell’alimentazione così come ordinariamente vengono attuate nei confronti dei pazienti in stato vegetativo. Il mantenimento di simili presidi, infatti, non produce sofferenze né menomazioni, ma solo la conservazione della vita: per cui – lo evidenzia anche la sentenza che abbiamo citato – esse non potrebbero definirsi, comunque, atti sproporzionati. Lo diverrebbero, semmai, solo allorquando il corpo non fosse più in grado di assimilare liquidi o sostanze nutritive, il che ovviamente esigerebbe l’interruzione.
Tuttavia, perfino asserendo che l’idratazione e l’alimentazione attuate con sondino naso-gastrico possano essere interrotte in quanto atti medici, non ne deriva, per sé, il venir meno, quanto ai soggetti titolari di una posizione di garanzia, del dovere di assicurare l’idratazione e l’alimentazione con modalità diverse da quelle sanitarie.



Sulla base di questi rilievi, deve riconoscersi che quanto viene in gioco (salva l’ipotesi estrema poco sopra menzionata) nel momento in cui si domandi o si decida di interrompere l’idratazione e l’alimentazione in rapporto ai contesti in esame non è un giudizio riferito a tali interventi, ma – inevitabilmente – alla condizione esistenziale dello stato vegetativo.
E che il problema di fondo sia proprio questo è evidenziato dalla stessa recente pronuncia in sede di rinvio della Corte di Appello di Milano sul medesimo caso di Eluana Englaro, laddove ritiene che la Cassazione richieda, prima ancora di accertare se l’interessata avrebbe o meno accettato il trattamento di idratazione e alimentazione con sondino naso-gastrico, «di valutare piuttosto se, in ragione delle sue concezioni di vita e in ispecie di dignità della vita, avrebbe comunque accettato o meno di sopravvivere in una condizione di totale menomazione fisio-psichica e senza più la possibilità di recuperare le sue funzioni percettive e cognitive» (ma come si potrebbe affermare, comunque, che le espressioni da cui si vorrebbe ricostruire la volontà di Eluana siano specificamente riferibili all’eventualità di essere lasciata morire di sete e di fame?).

Ora, ammettere che un’espressione antecedente del volere relativa all’eventualità di una perdita irreversibile della coscienza sia in grado di legittimare, quando davvero possa essere provata, atti volti a rimuovere condizioni in sé necessarie anche alla sopravvivenza di un individuo sano significa consentire l’instaurazione di un rapporto giuridico funzionale al prodursi della morte e, di fatto, la cooperazione a un intento di soppressione, date certe condizioni, della propria vita.
Esito, quest’ultimo, che appare una forzatura dell’assetto giuridico derivante dalle norme in vigore, il quale può essere mutato solo in sede legislativa. Con riflessi tanto più problematici nel caso in cui quanto si è sostenuto venga riferito a qualsiasi richiesta d’intervento (se solo non provenga da un soggetto qualificabile incapace) che sia volta a destrutturare una condizione di salvaguardia in atto della salute, cioè attuata attraverso strumenti terapeutici non definibili, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, come sproporzionati.

Del resto risulterebbe delicatissima, come ampiamente si riconosce, un’apertura alla possibilità di privare dei sostentamenti vitali di base chi si trovi nello stato vegetativo la quale fosse immediatamente riferita alle menomazioni psichiche proprie di quello stato. Ciò infatti inciderebbe sul principio cardine della teorica moderna relativa ai diritti umani, secondo cui deve rimanere irrilevante, ai fini della loro titolarità, qualsiasi giudizio circa le capacità o le qualità manifestate da un essere umano nel corso della sua esistenza: prospettiva che comporterebbe, altresì, il rischio di conseguenze a fortiori in rapporto a cerebrolesi o malati psichici gravi, nonché in genere rispetto a tutte le condizioni umane di cui si volesse asserire un livello inaccettabile d’imperfezione.
In realtà, quanto probabilmente soggiace al tema dell’approccio verso lo stato vegetativo permanente – a parte le ipotesi in cui dovesse prevalere il mero interesse a liberarsi di un onere o a evitare il confronto con la drammaticità dell’umano – è l’insidiosa percezione di una non eludibile inanità dell’impegno relativo a tale stato. Ma forse proprio l’essere inutile, dal punto di vista di un rapporto efficientistico con la vita, della disponibilità a piegarsi senza attesa di risultati esteriori sulle realtà umane più deprivate rappresenta, laicamente, il segnale più credibile del carattere solidaristico di una società, che ne costituisce la forza.

Resta, sotto altro profilo, il fatto che lo stato vegetativo permanente impone di riflettere con particolare cura sui criteri di proporzionalità dell’intervento sanitario nei confronti dell’individuo il quale si trovi in tale condizione. Se infatti, secondo ciò che s’è detto, sarebbe inaccettabile provocare la morte di quest’ultimo per sete e per fame (al pari di quel che accadde nel caso di Thierry Schiavo, con l’inevitabile spinta verso proposte di eutanasia attiva), le attività terapeutiche riferite a quel paziente dovranno comunque rispondere, per essere dovute, a criteri di proporzionalità, in forza dei quali, si afferma in modo ampiamente condiviso, forme d’intervento particolarmente impegnative e tuttavia normali in altri contesti potrebbero essere ritenute incongrue, cioè suscettibili di ingenerare un accanimento terapeutico, nella situazione di cui discutiamo.
Anche a tal proposito, tuttavia, non risulta dirimente la mera considerazione dello stato di menomazione e del tipo di malattia del paziente, come se implicassero in quanto tali un minor diritto alla tutela: si tratterà, piuttosto, di valutare pur sempre il beneficio che potrebbe esistenzialmente derivare al malato, nella sua condizione, da un certo atto terapeutico, in rapporto all’onere oggettivo dell’intervento sulla sua persona.
Queste considerazioni giuridiche vogliono rappresentare un contributo sereno alla riflessione, che si associa al senso di vicinanza e solidarietà umana verso tutti i familiari coinvolti nelle delicatissime vicende esistenziali che abbiamo considerato.

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