La tragedia di Karl Unterkircher sul Nanga Parbat e il salvataggio di Nones e Kehrer hanno occupato le cronache dei giornali per una settimana. È di ieri la notizia di un’altra tragedia nel gruppo del Monte Bianco. Il sussidiario ne ha parlato con Alessandro Gogna, tra i più noti alpinisti italiani di livello internazionale.



È destino che la montagna faccia notizia solo in caso di tragedie?

È vero, purtroppo, la montagna fa notizia solo quando capitano disgrazie. Soprattutto, poi, in questo caso, in cui gli alpinisti erano bloccati sulla montagna e si è determinata, giorno dopo giorno, una suspense, dettata dall’incertezza delle condizioni meteo e quindi dalla possibilità di effettuare il recupero. Non solo i giornali, ma anche il pubblico ci va a nozze. Chi pratica la montagna, una cosa del genere la vive in modo diverso.



Che posto ha la fatalità in una vicenda come questa e invece la capacità personale e professionale degli alpinisti?

Sono dell’opinione che più si sale in quota, soprattutto su una montagna come questa, visto che è un ottomila e tra l’altro uno dei più pericolosi – nella scala della pericolosità prima c’è l’Annapurna, poi il Nanga Parbat, prima ancora del K2 o dell’Everest –e più il rischio che subentri qualche fattore imprevedibile aumenta. Certo la maggiore esperienza, la bravura e l’intuizione degli alpinisti sono importanti: senza di esse il disastro sarebbe puntualmente assicurato. Nonostante questo, chi fa questo genere di cose lo sa e lo mette in conto: in fondo al proprio cuore sa che una disgrazia potrebbe sempre accadere. Il Nanga Parbat è una montagna troppo al di fuori della portata umana. È un posto dal quale chi torna indietro può senz’altro accendere un cero alla Madonna. Anche sulle Alpi capitano disgrazie, ma purtroppo le percentuali dimostrano che là, a quelle quote, è un’altra cosa.



I giornali hanno riportato puntualmente la domanda che sorge sempre in questi casi: perché? L’interrogativo “Chi ve lo fa fare” sorge inevitabile. Gli alpinisti se lo chiedono. Se lo era chiesto anche Unterkircher e Avvenire ha riferito che lui si dava una risposta religiosa, parlando del Mistero cui siamo destinati. Perché gli alpinisti fanno quello che fanno – o più genericamente: perché l’uomo va in montagna?

Non saprei probabilmente spiegarlo meglio di Unterkircher. Si può forse fare un paragone. È come chiedere a un giovane di diciassette o diciotto anni perché si arruola volontario per una guerra. Quanti lo hanno fatto, in Italia e negli altri paesi, nella prima o nella seconda guerra mondiale? Oggi, in tempo di pace, può essere facile parlare di vanagloria o di follia. Ma erano persone che credevano in un ideale e per questo si sono fatti volontari, accettandone i rischi. Per la montagna è la voglia di fare, scoprire e vivere in certi luoghi. Non è necessariamente una motivazione dettata dall’ambizione, anche se al fondo un po’ di ambizione è inevitabile. Piuttosto la volontà di fare qualcosa che potrà essere ricordato o che loro stessi potranno ricordare. Poi naturalmente, la sfida. Certo, ci vuole la disponibilità a mettere sul piatto della bilancia del destino anche la propria vita. Capisco che sia un ragionamento che oggi non va tanto per la maggiore, ma oggi c’è chi lo fa. Altrimenti non ci sarebbero alpinisti. O non ci sarebbero i velisti che fanno il giro del mondo in solitaria.

Chi ha letto le cronache di questi giorni non ha potuto fare a meno di imbattersi in un nome legato al Nanga Parbat: quello di Hermann Buhl. Chi era?

Hermann Buhl era un tirolese, di Innsbruck, nato negli anni Venti. È stato certamente uno dei più grandi alpinisti del XX secolo. Possiamo citare qualche nome: Cassin, Bonatti, Bonington, Messner. E Buhl. I nomi sono questi. Naturalmente ce ne sarebbero molti di più, ma se si fosse obbligati a fare una lista ristretta non potrebbero esserci che questi. Buhl ha fatto grandissime ascensioni, una delle quali è proprio la prima salita del Nanga Parbat. Nel 1953 partì con una spedizione austro-tedesca che puntava alla prima ascensione della montagna. Il Nanga Parbat era costato la vita a decine di persone negli anni precedenti, ed era soprannominato, all’epoca, la “tomba dei tedeschi”. E lo fu anche per tanti sherpa. Ad un certo punto il capo spedizione, viste le difficoltà, impose di rinunciare. Buhl, invece, che in quel momento si trovava al campo più alto, decise di disobbedire e andò da solo in cima. Questo colpì l’immaginario di migliaia di appassionati, e ne fece un simbolo per generazioni di alpinisti.

Cosa è cambiato dai tempi di Buhl a oggi? Si potrebbe dire che la montagna è già stata salita…

Sì, però Buhl salì la via più facile. Oggi si cercano gli itinerari più difficili. Poi c’è una differenza abissale: è cambiato tutto. Mezzi, materiale equipaggiamento. Basterebbe pensare ai tre elementi che hanno reso possibile il recupero di Nones e Kehrer: telefono satellitare, previsioni meteo ed elicotteri.

In casi come questi, in cui ne va della vita, essere lasciati soli fa parte delle regole del gioco o no? Mi riferisco alle parole di Fausto De Stefani, che in un’agenzia di ieri ha parlato di una operazione che non si doveva fare, perché Unterkircher, Kehrer e Nones sapevano bene i rischi cui andavano incontro e ha parlato di “aiuto non richiesto” e di “spettacolarizzazione della montagna”. Che ne pensa?

Non parlerei di aiuto non richiesto, perché hanno ricevuto da un elicottero gli sci, viveri e un telefono satellitare. Avrebbero potuto benissimo dire “non venite a prenderci”, invece non è andata così. Nel caso generale in cui ci fosse un soccorso non richiesto, beh questo è già successo, non solo in Himalaya ma anche sulle Alpi. Sono casi che hanno fatto discutere. Meglio comunque un soccorso non richiesto che il peggio. Almeno nella mia opinione. Anzi, sono stato colpito dalla precisione con cui è stata gestita la macchina dei soccorsi.

(Federico Ferraù)