Proprio nei giorni in cui le squille anti-vita risuonavano indignate per il rifiuto della regione Lombardia ad offrire le proprie strutture sanitarie alla perpetrazione dell’assassinio della ragazza mediante la sospensione dell’alimentazione, un nuovo toccante caso di “qualità della vita” non consona ai canoni richiesti dalla attuale società ci veniva tragicamente addosso come un pugno al fegato.



Si tratta dell’intervista rilasciata a SKY da Stefano Borgonovo, 44 anni, ex centravanti di Como, Sambenedettese, Fiorentina, Milan, Pescara ed Udinese. Una carriera che gli ha visto mettere a segno oltre 50 gol nella nostra serie A e vestire l’azzurro della nazionale ai tempi del C.T Azeglio Vicini.

Deve essere stata davvero dura, a 40 anni appena compiuti, rendersi conto che senza volerlo si biascicavano alcune parole. La moglie ed i quattro figli che pensano ad un principio di ictus, le visite, la diagnosi inequivocabile. SLA, acronimo di sclerosi laterale amiotrofica, o “morbo di Gehrig”, dal nome dell’idolo dei New York Yankees che per primo morì a causa di questo atroce deperimento nel 1941.



Una lenta, progressiva, inarrestabile paralisi di tutti i muscoli del corpo; mentre crudelmente la mente rimane lucida ed inabile spettatrice al declino che conduce alla morte.

Un male che nel mondo del calcio ha già mietuto troppe vittime: il primo calciatore a cui venne diagnosticata la SLA fu Armando Segato, ex Cagliari, Fiorentina ed Udinese, deceduto nel 1973 a 44 anni.

Dopo di lui Cucchiaroni, Ockwirk e Vincenzi (Sampdoria), Rognoni, Vasino e Soldan (Milan), Corno e Canazza (Como), Lombardi e Gritti (Avellino), Bernardini (Roma ed ex C.T. della nazionale), Nanni (Pisa), Minghelli (Torino), Dipietropaolo (Roma), Falco (Salernitana), Signorini (Genoa) ed ora Stefano Borgonovo.



Come un pluriomicida processato si sente dire nel momento della sentenza “fine pena mai”, quale terribile sensazione avrà provato l’ex gemello del gol di Roberto Baggio nel comprendere di essere finito in un tunnel dal quale, per ora, mai nessuno ne è uscito?

Ma a differenza di chi ha commesso un reato e per questo vedrà la fine dei suoi giorni chiuso fra i muri di una cella, Stefano vede l’inesorabile trascorrere del tempo davanti al suo “eye-tracker”, la macchina che lo tiene a contatto col mondo, senza aver commesso nulla di male. Anzi, avendo fatto innamorare migliaia di tifosi con le sue magie pallonare ed anche un bel po’ di ragazzine per quei suoi riccioli lungi sulla nuca e lo sguardo malandrino.

Le statistiche dicono che sono 6 i casi di SLA ogni 100.000 abitanti nel nostro Paese.  Una ricerca dimostra che su un campione di circa settemila calciatori sono stati individuati ben 8 ammalati di questo morbo. E’ evidente la sproporzione, ed il magistrato torinese Raffaele Guariniello, impegnato nelle indagini sulle possibili connessioni tra lo sport professionistico e questa malattia degenerativa del sistema nervoso ha chiaramente indicato che “Tra i calciatori professionisti si muore sei volte di più di SLA rispetto alla popolazione generale”.Inoltre gli atleti non solo vengono colpiti dal morbo di Gehrig con una percentuale superiore, ma si ammalano prima: circa a 40 anni anziché a 60.Le ipotesi che sono state fatte sono le più disparate: la predisposizione genetica, i ripetuti traumi alle gambe dovuti ai contrasti di gioco, l’intensa attività agonistica e il conseguente sforzo prolungato, il venire a contatto con pesticidi e diserbanti usati per mantenere l’erba dei campi da gioco, l’abuso di farmaci (in particolare gli antinfiammatori), addirittura c’è chi ha ipotizzato delle cause nei continui traumi al blocco facciale dovuti ai colpi di testa.

E’ ovvio che su tutta questa faccenda aleggi anche l’oscura ombra del doping. Nessuno può fare l’ingenua verginella e stupirsi se gli spogliatoi di calcio, da almeno trent’anni, non presentino più quell’odore di olio canforato che si respirava negli intervalli delle partite fatte all’oratorio. Oggi dietro un team ci sono delle vere e proprie equipe mediche, fiale e flebo di ogni tipo e per ogni evenienza, laboratori utili a vivisezionare gli atleti dal punto di vista delle capacità motorie, di sforzo, di recupero. Per questo il passo fra le stregonerie messe in atto per aumentare le performance e certe malattie sembrerebbe breve. Ma allora come spiegare il fatto che fra i ciclisti (dove per certo il doping è di casa da parecchio tempo) non si trova un solo caso accertato di SLA?

La situazione è confusa, si soffre, si muore e non si capisce ancora perché. Serve fare chiarezza. Ben vengano allora le testimonianze come quella di Borgonovo. Perché, dopo un periodo di volontario isolamento e di silenzio durato qualche anno, ha deciso di uscire allo scoperto, grazie all’amico ed ex calciatore Massimo Mauro che ne ha raccolto le confidenze per SKY.

Ma non è stata una casualità: Mauro è fondatore, assieme a Gianluca Vialli e Cristina Grande Stevens, della “Fondazione Vialli e Mauro”, la quale ha come scopo primario del suo statuto la raccolta fondi utile all’aiuto della “ricerca scientifica di particolare interesse sociale nel campo della sclerosi laterale amiotrofica (SLA)”.

Inoltre la fondazione collabora a stretto contatto con l’AISLA, di cui è presidente il Dott. Mauro Melazzini, anch’esso malato come Borgonovo e strenuo difensore del diritto alla vita, in netta contrapposizione alle esperienze di malati come il povero Piergiorgio Welby o Luca Coscioni, che hanno recentemente riportato a galla gli scottanti temi del diritto alla morte in presenza di una “qualità della vita” che non presenti più delle caratteristiche e delle possibilità soddisfacenti per il malato.

Melazzini era al fianco di Borgonovo durante l’intervista, ed era facile comprendere quanto fosse saldo il legame mentale fra i due, la volontà di combattere, la voglia di vivere.

Quei sorrisi che si confondono con le smorfie del viso sotto sforzo mentre il malato si muove davanti all’”eye-tracker” sono commoventi. Ma sono la vivacità e la brillantezza degli occhi che devono portarci oltre l’immediata compassione per il sofferente.

Quelli sono occhi di uno che è sfinito ma che non ha finito. Uno che, grazie alla sua popolarità (proprio come fece per primo, senza pudori, il capitano del Genoa Gianluca Signorini) vuole buttarci in faccia la sua malattia e chiedere a tutti un paio di cose.

La prima è l’aiuto monetario che si può offrire alla ricerca, affinché questa possa impegnarsi maggiormente allo scopo di trovare il rimedio ancora sconosciuto per questa degenerazione del sistema nervoso che nasce dalla morte di alcune cellule dette motoneuroni, responsabili del coordinamento dei nostri movimenti dalle loro sedi che sono il cervello e il midollo spinale.

La seconda, e più importante, è ricordare a tutti noi belli, sani e pronti a sparare giudizi a raffica sopra ogni situazione (che riguarda altri, ovviamente), che non c’è nessuna vita che non valga la pena di essere vissuta.

Borgonovo è provato come pochi lo possono essere. Ma è felice, circondato da quattro figli e da una moglie splendida alla quale, grazie al sintetizzatore vocale, riesce a dire ancora “ti amo” o “vai a quel paese”, proprio come succede fra ogni marito e moglie.

Una moglie battagliera, che dopo essere passata dall’iniziale e comprensibile incapacità di accettare quello che stava succedendo (“Lo sapevamo tutti, ma all’inizio non volevamo parlarne, eravamo nel rifiuto totale. La mano, il braccio, le gambe, perdeva qualcosa ogni giorno. Una caduta libera, facevamo finta di niente anche con i suoi genitori (…) mi sentivo persa, avrei voluto mettermi in contatto con la moglie di Signorini ma avevo paura di disturbare”) ora ha messo in piedi la “Fondazione Borgonovo” perché “Usare la popolarità di Stefano è utile affinché si parli della SLA, per aiutare chi non è assistito come noi, per cercare fondi per la ricerca e un giorno, magari, trovare una cura. Ecco perché. Gli ho detto: il malato sei tu, la gente può identificarsi in te. Dura? È molto peggio che dura. Però io sono convinta che per noi non sia finita. Viviamo giorno per giorno, il futuro non è segnato. E se lui fosse il primo calciatore che guarisce dalla Sla?”.

Con una donna così, e quattro figli che ti guardano sempre con lo stesso sguardo, perché anche conciato in quel modo sei sempre il loro amore, il marito, il papà; allora come si fa ad avere voglia di morire?

E infatti Borgonovo arriva a dire esplicitamente, e scherzosamente, di essere arrabbiato con l’ex collega Gianluca Pessotto “che ha scritto un libro per raccontare che voleva morire, mentre io sono qui che voglio vivere! Ho aperto una fondazione per aiutare chi è nelle mie condizioni. Voglio trovare soldi per la ricerca: magari salta fuori la penicillina del 2008. Mi rifiuto di pensare che la SLA sia una malattia del pallone, perché io amo il calcio”.

Un inno alla vita, alla speranza, a qualcosa che rimanda oltre la nostra finitezza, seppure abbracciando con amore il nostro destino mortale. Un atto di coraggio e di amore alla vita: mettere in piazza la propria condizione affinché altri ne possano giovare traendone speranza, e non per suscitare quel recondito timore (e se accadesse a me?) mascherato da pietismo utile solo a toglierci dagli occhi quell’immagine fastidiosa.

Sul sito dell’associazione “Luca Coscioni”, alla quale apparteneva Piergiorgio Welby con la moglie Mina, si legge che “L’eutanasia, praticata in un contesto di regole precise, costituisce un’espressione di libertà e dignità dell’individuo”.

Parole oscure, che nascondono troppi trabocchetti.

Mi piacciono molto di più la dignità, la trasparenza, la gioia, la libertà che stanno nella mente di Stefano, intaccabile dalla malattia, che arriva a dire a conclusione dell’intervista “…che voglia che ho…quasi quasi cinque minuti in campo me li farei anch’io…scenderei in campo adesso, su un prato o all’oratorio”.

Chi può vantare una voglia di vivere più grande?