“Addio figli al Sud, più prolifico il Nord”. Il titolo apparso su “La Repubblica” del 10 settembre è sicuramente ad effetto e fotografa efficacemente una tendenza che gli studiosi di fenomeni demografici conoscono dal 2004. Da quell’anno, infatti, le regioni meridionali sono state sorpassate da quelle settentrionali nei tassi di fecondità, ovvero nel numero medio di figli per ogni donna in età fertile.
L’articolo, citando un saggio di Alessandro Rosina apparso sull’ultimo numero di “Vita e Pensiero”, collega questo dato a quello della diffusione del lavoro femminile: si fanno più figli dove le donne lavorano di più, dal momento che il vero motore della fertilità sarebbe quello economico. E dunque, quanti più soldi entrano in una famiglia quanto più crescerebbe la propensione a fare figli. Con l’aggiunta di un terzo e fondamentale elemento: quello di una adeguata dotazione di servizi alla prima infanzia, che in generale nel nostro paese appaiono fortemente inadeguati a rispondere alle esigenze delle famiglie.
Si tratta di una tesi assai diffusa a livello internazionale e rilanciata autorevolmente in Italia, per citare solo i due casi più recenti, dal politologo Maurizio Ferrera (con il suo “Il Fattore D”, Mondadori) e dall’ISTAT, che ha recentemente pubblicato un volume dal titolo “Conciliare lavoro e famiglia”. Una tesi capace di cogliere alcuni aspetti importanti del problema, ma che probabilmente da sola non riesce a spiegare tutto.
In Europa sappiamo che la relazione lavoro femminile – fecondità è assai stretta. Come si può notare nelle figure 1 e 2, sono poche le eccezioni che sfuggono a questa legge, sia che si guardi al lavoro femminile nel suo complesso, sia che si prenda il solo lavoro part-time.
Tra queste eccezioni, però, risaltano due casi molto significativi su cui è utile soffermarsi. La Francia è il paese con la miglior performance in termini di fertilità, cresciuta in modo spettacolare negli ultimi dieci anni, pur avendo tassi di occupazione femminile leggermente superiori (occupazione totale) e addirittura inferiori (part-time) rispetto alle medie europee. La Germania, invece, presenta livelli di occupazione femminili elevati, in particolare nei contratti part-time, eppure condivide il record negativo di fertilità con i “famigerati” paesi mediterranei a bassa intensità di lavoro femminile.
In entrambi i casi, per altro, ci troviamo di fronte a politiche famigliari “munifiche”, fortemente incentivanti la natalità. Politiche che evidentemente in un caso (la Francia) funzionano (pur in una condizione di fragilità drammatica dell’istituzione famiglia), nell’altro invece mancano ampiamente l’obiettivo, dal momento che in Germania i tassi di fecondità sono a livelli minimi ormai da moltissimi anni.
 



Figura 1 – Relazione tassi d’occupazione femminile / Tassi di fecondità  – Anno 2006

Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat

Figura 2 – Relazione % donne lavoratrici con contratto part-time / Tassi di fecondità  – Anno 2006

Fonte: Elaborazioni su dati Eurostat

Queste evidenze suggeriscono dunque che esistano elementi di tipo culturale capaci di incidere profondamente nelle scelte generative delle coppie, in aggiunta alle variabili di tipo economico e occupazionale. Esistono “buone ragioni” per non fare figli, non riducibili a quelle di tipo materiale. Nel nostro paese, ad esempio, la persistente dominanza del modello “a figlio unico” non appare facilmente scalfibile da una modificazione delle condizioni di tipo esogeno (soldi più servizi). Un’indagine ISTAT sulle motivazioni delle donne italiane con un solo figlio mostra, ad esempio, come solo nel 20% dei casi la motivazione sia di tipo economico e come in un caso su quattro vi sia una condizione di “soddisfazione”, ovvero una assenza di motivazioni a fuoriuscire dal modello del figlio unico.



Tabella 1 – Motivazione principale per non avere altri figli dichiarata delle madri con un figlio e che non hanno intenzione di farne altri – Italia, Anno 2005

Motivazione

Distribuzione %

E’ soddisfatta

25,3

Motivi economici

20,6

Motivi di età

14,5

Altro

9,9

Motivi di lavoro

9,5

Preoccupazione per i figli

7,1

Motivi di salute

6,8

Fatica per gravidanza e cura dei figli

6,4

Fonte Istat 2006

Al di là delle tesi “ufficiali”, che trovano larga eco anche nei documenti europei e nella cosiddetta “strategia di Lisbona”, la strada per aumentare la fertilità appare più composita di quanto non dicano i dati, pur significativi, sulla relazione tra lavoro femminile e numero di figli. Anche su questo tema vi è una “emergenza educativa”, che rilancia la necessità di una strategia complessiva, capace di rimuovere tutti gli impedimenti alla generatività, coinvolgendo non soltanto le donne come unico obiettivo degli interventi politici, ma tutta la società, in uno sforzo comune che abbia a cuore (come suggeriva già nel 2005 il Centro Internazionale di Studi sulla Famiglia nel suo rapporto annuale) il benessere delle famiglie, mettendole nelle migliori condizioni per scegliere responsabilmente. Anche in tema di natalità.