«La mia è una religione aperta e non chiusa. Riconosco purtroppo che non per tutti i musulmani è così». Lo dice Asfa Mahmoud, presidente della Casa della cultura islamica di Milano. Sono stati Vittorio Emanuele Parsi e Souad Sbai, su questo giornale, a lanciare un segnale d’allarme: guai se gruppi musulmani estremisti riescono a sfruttare episodi come quello della crisi di Gaza per confondere fede e politica ed egemonizzare l’islam italiano.
Dopo le polemiche suscitate dai fatti di Milano e Bologna il presidente della Camera Gianfranco Fini è intervenuto dicendo che gli imam dovrebbero predicare in italiano. E ha fatto discutere. Lei che ne pensa?
Nella Casa della cultura islamica di Milano, fina dalla sua fondazione nel 1993, abbiamo tenuto il sermone della preghiera del venerdì in italiano. L’intervento del presidente Fini non ci ha colto di sorpresa. Siamo una realtà che punta ad una piena integrazione.
Come mai le realtà più integrate faticano ad affermarsi?
Perché la gente normale, che desidera essere integrata in questa società, non fa notizia. La nostra associazione, fin dalla sua fondazione, ha promosso moltissime iniziative che vanno nel senso dell’integrazione dei fedeli musulmani nella società italiana. Con la Chiesa cattolica, dal 1996, abbiamo creato il Forum delle religioni a Milano: è cominciato un dialogo, che due anni fa è approdato allo Statuto del Forum delle religioni a Milano, con la partecipazione di tutte le principali confessioni religiose, cristiani, ebrei, buddisti e musulmani.
Ha fatto polemica il fatto che, a Milano e Bologna, ad una manifestazione politica sia seguita una preghiera, un atto religioso pubblico, in un luogo simbolo del cattolicesimo. Che ne pensa? C’è stata l’egemonia politica da parte di certi gruppi più radicali?
Sono d’accordo che una manifestazione di solidarietà con un popolo non vada mischiata con la questione religiosa. Credo anche che gli organizzatori della manifestazione non avessero in programma la preghiera. Non era previsto l’afflusso di una decina di migliaia di persone, e quando si è capito che Piazza San Babila non sarebbe bastata a contenere tutti quelli che provenivano da Porta Venezia, la polizia ha dato agli organizzatori il permesso di andare verso Piazza Duomo. Quando i partecipanti sono arrivati in piazza, verso le 17, era l’ora della quarta preghiera del giorno. La gente si è messa a pregare spontaneamente.
A Bologna, però, è accaduta la stessa cosa. Difficile pensare che mancasse un coordinamento e che per questo gli organizzatori non avessero in mente di dare alla preghiera una valenza politica che, forse, non aveva per tutti partecipanti.
Le manifestazioni sono state fatte nello stesso tempo e alle cinque meno dieci ogni musulmano fa la preghiera del giorno. Ripeto che secondo me lo scopo era innanzitutto portare solidarietà alla popolazione di Gaza.
Cosa pensa allora di quello che è accaduto durante la manifestazione? Sono state date alle fiamme bandiere di Israele…
Come responsabile della Casa della Cultura islamica, ho già avuto modo di esprimere la mia posizione condannando il gesto. Lo abbiamo già dichiarato alla stampa. Quando è scoppiata la polemica, ho fatto una riunione con gli altri centri, con gli organizzatori e con la persona che ha guidato la preghiera, per chiarire la nostra posizione. È stata organizzata una delegazione, che si è recata da monsignor Bottoni per chiarire la vicenda, e abbiamo fatto un comunicato, che anche la Chiesa ha accettato, in cui si dice che se qualcuno si è sentito offeso la comunità musulmana chiede scusa.
Esiste l’impressione, anche in conseguenza di questi fatti recenti, che un islam moderato faccia fatica ad affermarsi e che addirittura possa esistere come tale. Qual è la sua opinione?
Spetta agli italiani valutare ogni associazione. Noi siamo aperti al pubblico, facciamo corsi di lingue, italiano e arabo, organizziamo iniziative, corsi di orientamento per gli immigrati, dicendo come ci si comporta in questo paese, insomma tutto è trasparente. Altri gruppi non lo fanno. Dispiace che dall’esterno ci considerino uguali.
Se è così, lei stesso mi conferma che nel mondo islamico, anche a Milano, non tutti gli interlocutori sono uguali….
Io capisco semplicemente che la mia fede è questa, che la mia è una religione aperta e non chiusa. Riconosco purtroppo che non per tutti i musulmani è così.
Secondo lei allora c’è un problema dell’amministrazione nell’individuare gli interlocutori giusti?
Noi ci siamo rivolti al Comune più volte per risolvere il problema della preghiera: non volendo pregare occupando i marciapiedi all’esterno, abbiamo preso in affitto due palestre. Per non creare disagio ai cittadini del quartiere, facciamo i turni. Con queste nostre iniziative vorremmo dimostrare che siamo affidabili, ma nello stesso tempo è grande la fatica nel trovare attenzione e riconoscimento nelle istituzioni. E le soluzioni che siamo riusciti a trovare, finora, sono solo temporanee.
Esiste un problema di reciproca organizzazione e riconoscimento tra le diverse comunità islamiche?
Noi ci sentiamo e vogliamo essere parte integrante della società in cui ci troviamo e di cui ormai facciamo parte; conservando naturalmente la nostra identità religiosa. L’integrazione a mio avviso è questo.
Che cosa chiedete alle autorità politiche?
Vorremmo la creazione di una Consulta, formata da comune, provincia, regione e prefettura, e con responsabili nostri, per mettere i problemi sul tavolo e trovare soluzioni condivise. Più passa il tempo, invece, più diviene difficile risolverli, come è stato per Viale Jenner. Noi però lamentiamo il fatto che il Comune di Milano, fino ad ora, non abbia aperto un confronto, legittimando la posizione degli interlocutori più moderati.