Quattordici anni fa avevo giurato a me stesso che non sarei più tornato in Terra Santa. Troppo caldo, troppo disordine, troppa sporcizia. Voci orientali scomposte e aggressive, cibo poco invitante, pellegrini chiassosi e superficiali.
Insomma, orribile. Era il mio primo viaggio laggiù e sarebbe stato l’ultimo. Mai più sarei tornato in quella Terra che pure ammettevo avrei sempre riconosciuto come Santa.
Parafrasando le celebri parole di Giovanni XXIII a Loreto, mentre ricordava l’esperienza triste di un pellegrinaggio là in età giovanile, dicevo: «Signore mio, ti voglio tanto bene, ma qui non mi vedrai mai più». E aggiungevo: «Scusa, sai, ma avresti fatto meglio ad incarnarti per esempio in Carinzia o in Borgogna. Perché proprio ‘sto postaccio invivibile?».
Quest’autunno invece sono stato (fortunatamente? provvidenzialmente?) obbligato a rimettere piede in Terra Santa. Il disordine è rimasto tale, la sporcizia pure, la gente non è diventata più simpatica e i pellegrini non erano meno chiassosi.
Chi è cambiato sono io. Occhi diversi. Cuore diverso.
Sarà l’età più avanzata, sarà il clima più gradevole, sarà la compagnia degli amici, ma sostanzialmente quello cambiato sono io. Questa volta non sono andato per prendere qualcosa, per vedere e imparare, per aggiungere un’esperienza. No. Sono andato per stare ad ascoltare, per capire, insomma con un atteggiamento più umile e più ricettivo. E allora il diario potrebbe aprirsi e schiudere mille considerazioni, mille passi compiuti nell’animo.
Basterà qui dire che cosa significa essere appena stato in Terra Santa ora che le prime notizie di tutti i giornali e telegiornali ne parlano. Semplicemente, non ci si stupisce di nulla. Si ridimensiona tutto quel che si vede e si sente dire della guerra. Quella è una terra così, fatta di contraddizioni, di odio profondo, di animi esasperati. Verrà mai la pace? La natura, l’identità stessa di quel Paese sono la negazione di ogni speranza umana. Tutti parlano di negoziati e di diplomazia, ma questo è un caso che non si risolve.
Che non possiamo risolvere noi, con mezzi umani. Se non ci si appella al Dio vero, al Dio di tutti, non si combina nulla. E quando dico il Dio vero, intendo il Dio capace di portare la pace vera. Non il pacifismo, l’irenismo, la non belligeranza: ci sono già tanti che ne parlano, si atteggiano da illuminati ma se vai a guardare scopri che appendono le bandiere della pace sul balcone e poi litigano ferocemente con il vicino di casa. Io invece intendo il Dio di Gesù Cristo, tanto malamente testimoniato da noi cristiani, che ne portiamo il nome, ma tanto innamorato di tutti noi da essersi incarnato per sollevarci. Un Dio che non fa la pace a parole. Uno che accetta di venire ad abitare in una Terra per niente bella, per niente facile, ma per portare la pace dall’alto della Croce. Parlando al cuore e alla coscienza dell’uomo e chiedendo di essere accolto e obbedito come Dio del perdono e dell’amore.
Così penso, pellegrino rincasato, mentre leggo i giornali.
(Aldo Cerefogli)