Don Giorgio e il Drago. Don Giorgio Pontiggia, prete in Milano, che se ne va a neanche settant’anni. E il Nemico dell’uomo di nuovo atterrato dalla lancia di un cristiano. Scusa, lettore, se mi prendo le pagine leggere della “Rosa dei Tempi” per dire due parole di una morte pesante. Scusa, perché se una sera di quarant’anni fa esatti io sono stato ri-partorito alla vita, questo è successo perché ho incontrato don Giorgio Pontiggia.



Adesso, nei prossimi giorni, mesi, anni, verranno giù le cateratte. Verranno giù dalle Americhe e dalle Oceanie, dall’Africa e dall’Asia, tutti coloro che per un tratto di strada, piccolo o grande che fosse, hanno incrociato questo piccolo immenso uomo. Aveva le viscere a portata di mano, la presa d’acciaio, la parola dritta e dura come una lama corsa, don Giorgio. Non c’era scampo per l’adolescente davanti alla sua urgenza paterna di vederti col cuore e la mente al posto giusto. Parleranno e testimonieranno in tanti di questo indomabile educatore (cioè di uno che tira fuori da te tutto il bene, il bello, il giusto che Dio ha messo in te, anche se ti senti uno scarafaggio).



Don Giorgio aveva neanche trent’anni. Io neanche quattordici. Ci siamo incontrati lì. Pensate, dopo di me ha trascinato al riconoscimento della grande Presenza decine di migliaia di ragazzi. Non è una cifra sborona. Per dire, mia figlia Gloria aveva 18 anni il giugno scorso, quando don Giorgio era ancora lì, con lei e i suoi amici, dopo le migliaia e migliaia di Glorie e di amici con cui aveva conversato, cenato, inventato vacanze e doposcuola, caritative e volantinaggi, cineforum e battaglie culturali, cooperative di quartiere e scuole, scuole domestiche e scuole parrocchiali, scuole per grandi e scuole per piccini…



Don Giorgio è arrivato nella mia parrocchia, la parrocchia di Santa Maria alla Fontana, quartiere Stelvio-Farini, Milano, sul finire dell’anno 1970. C’era nell’aria la rivoluzione e noi ragazzini oscillavamo tra il Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia. Come se niente fosse, a costo di vedere (come poi accadde) la fuga in massa verso l’utopia, don Giorgio piantò nella nostra comunità giovanile la sfida dell’ipotesi di Gesù come chiave di volta di tutta la vita.

Inizialmente lo seguimmo in pochi, piccoli pulcini affascinati da un’umanità arrembante, sempre in lotta, sempre resistente a ogni conformismo, sempre pronta a ripartire, qualunque incoerenza tu avessi dimostrato. Ma poi molte anime, giovani e meno giovani, vennero conquistate. In breve tempo si formò intorno a questo prete singolare – che non le mandava a dire a nessuno, tanto meno ai propri superiori – una comunità vivace e numerosa di figli e di padri, di bambini e di nonni. Una comunità che imparò da lui che o Dio è tutto, o non è niente.

Don Giorgio capovolse ogni regola e reinventò l’oratorio secondo forme e contenuti che non ho più visto applicati in giro, almeno con quel suo entusiasmo, forza, decisione e, oserei dire, slancio rivoluzionario. Dai quindici anni in su, in oratorio non si va più per fare i bulletti, giocare al pallone o al ping pong, emarginando i più piccoli. Si va per servirli, i piccoli, per fare catechismo e per farli giocare (caritativa), per andare in gita con loro e per farli studiare, iniziandoli a giudicare ogni cosa alla luce dell’“amicizia di Gesù”.

 
Una settimana rivoluzionaria

Lo raccontavo la sera della vigilia della morte di Giorgio a mia figlia Gloria. La nostra settimana “pontiggiana” sul principiare degli anni Settanta è la seguente: lodi a scuola (mentre intorno a te magari gridano “più croci e più leoni per i servi dei padroni”) e presenza in assemblea come comunità cristiana (mentre magari ti menano al “Satana, Lucifero, Belzebù, Paolo VI il diavolo sei tu”). E poi, quando non sei di turno in oratorio per la caritativa o il catechismo con i bambini, studi con i tuoi compagni a scuola, ora terza, Angelus, sesta e vesperi. Tutti i venerdì sera c’è, infine, la meditazione della liturgia domenicale. E domenica mattina, tutti gli adolescenti e la comunità giovanile alla Messa delle 11. La sua Messa. Quella delle sfuriate contro la vita borghese e dei silenzi pietratombali dei fedeli, atterriti davanti ai decibel del predicatore che faceva tremare i muri e a cui si gonfiavano paurosamente le vene del collo. Insomma cristianesimo totale e di comunità. Poiché, insegna don Giorgio, «Cristo è la risposta alla nostra sete di felicità» e «l’Essere è comunione».

Stiamo parlando di cose che anticipano Comunione e Liberazione. E che nel pieno dell’ubriacatura ideologica (della gioventù in piazza e delle azioni cattoliche in fuga nella scelta religiosa) vedevano protagonisti ragazzini tra i 14 e i 18 anni. Don Giorgio ha insegnato a generazioni di giovani a non avere timore di nulla. Il peccato più grave, quello sì da temere sopra ogni cosa? Il non essere seriamente impegnati con se stessi, il non prendere sul serio ogni desiderio, dalla politica alla simpatia per una ragazzina. «Il nulla non si sceglie – diceva il don – nel nulla ci si trova, ci si scivola per disimpegno con la vita».

Don Giorgio fece di ragazzi adolescenti dei veri piccoli grandi uomini. Per lui un sedicenne poteva guidare una comunità e, come successe ad Antonio Simone (mio “capo comunità giovanile” e cofondatore di Tempi), era così convinto di potere rischiare sui suoi ragazzi, che era capace di affidare in tutta tranquillità a un paio di ragazzini la responsabilità di portare in vacanza pazzi pericolosi o tossici incalliti.

 

Ci ha messo addosso la tempra dei senzapaura, don Giorgio. E dei senzapatria. Così, quando fu il tempo, ci consegnò al suo stesso padre, don Luigi Giussani, perché anche noi conoscessimo di quale pasta era fatto lui. E così Giussani ci conobbe. Anzi, ci riconobbe. Poiché la farina del mulino pontiggiano si riconosceva di primo acchito e, come diceva il Giuss, «non c’è un prete che come don Giorgio ha l’educazione così nelle viscere, per cui i suoi si riconoscono subito».

 

 

Irruento, focoso, devastatore di ogni luogo comune, don Giorgio è stato certamente un prete superiore per umanità e forza ai preti resi famosi dalla pubblicità progresso (penso ai don Milani, a i don Mazzolari eccetera), così avida di antipapi. Eppure, anch’egli che sapeva litigare molto più ferocemente dei vari preti del cosiddetto dissenso – e litigare di brutto – con superiori e monsignori, conosceva e, soprattutto, praticava e insegnava la virtù dell’obbedienza.

 

Don Giorgio ha mantenuto la promessa fatta un giorno al mio padre biologico, fatta dopo avermi visto saltare giù come una scimmia dal primo piano del palazzo dell’oratorio. «Questa bestia diventerà un uomo». Porca miseria, don, come ci hai sempre azzeccato sui tuoi ragazzi!
 
Impossibile restare indifferenti

Dalla metà degli anni Ottanta, don Giorgio era diventato rettore dei licei del Sacro Cuore di Milano, oltre che leader indiscusso di Gioventù Studentesca. Innalzato sugli scudi giovanili, non c’era studente liceale che potesse rimanere indifferente, in un modo o nell’altro, pro o contro, nei confronti di quella furia della natura. Quanti giorni felici! E quanti dolori! Quanti ragazzi hai tolto dalla strada del nulla e quanti hai accompagnato a morire, di cancro, di incidente, di accidente misterioso, nella gioia e nella speranza in Cristo.

 

Ti devo dire la verità, caro Giorgio, quando l’altra sera ti ho visto, ed era domenica sera, ed eri appeso a una flebo, ed eri in coma irreversibile, privo di conoscenza, addormentato, appeso alle amorevoli cure dei tuoi amici, delle tue amiche, il giorno prima della tua traversata verso Dio e verso il nostro caro Giuss, i tuoi cari e tutti gli amici, Lidia e tutti gli altri che ci hanno preceduto, appena fuori la tua casa in cui tutti i volti, sia pur nella mestizia e nel dolore, erano tutti – ma proprio tutti – caldi e lieti, ho incontrato un ragazzo dei tuoi che non riconoscevo nella sua bellezza e grandezza di uomo.

 

Ho incontrato Pietro, quello che hai pure bocciato una volta – proprio tu che non volevi mai bocciare nessuno – e noi -dico io, mia moglie e i quattro nostri ragazzini – che eravamo lì a pendere dalla lingua diritta, tranquilla, autorevole, di quel ventenne lì. Pietro, il Pietro che hai tirato su tu, che ha vent’anni e che ti dice a bruciapelo: «Ho visto don Giorgio, ho visto la certezza della vittoria di Cristo sulla morte».

 

(Anticipazione dal prossimo numero di Tempi)