A scorrere il Manifesto “Sottosopra – Immagina che il lavoro…”, pubblicato dalla Libreria delle Donne di Milano, storico centro del femminismo nazionale, presentato lo scorso 24 ottobre, si potrebbe concludere che le femministe abbiano “finalmente” cambiato idea. Il manifesto – otto pagine fitte di riflessioni e proposte, articolate in dieci punti principali – si annuncia infatti con una frase che suona: “Perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti, e il femminismo non ci basta più”; e prosegue con affermazioni come «il patriarcato è morto: perfino la parola fa pensare al secolo scorso», o come «è morta l’idea di parità, cioè l’esigenza di misurarsi con i paradigmi di un mondo regolato solo sugli uomini»; o infine «questo sapere politico, che per molte donne è nato dallapresa di coscienza femminista, oggi incrocia la domanda globale di una politica più giusta. Ma non è il trionfo del femminismo. Al contrario, per le femministe è il momento di voltare pagina».



Femministe pentite? La realtà è più complessa. A cominciare dalla realtà del movimento delle donne, spesso frettolosamente identificato con un monolito turbolento, incendiario di biancheria intima, votato all’egualitarismo, mentre la sua storia e i suoi esiti sono multiformi, non univoci, non identificabili tout court con l’obiettivo paritario, ormai così popolare da essere entrato stabilmente nel lessico governativo. Le autrici del Manifesto – otto personaggi di spicco del movimento – danno continuità e voce a una linea che tradizionalmente ha visto nella differenza tra i sessi una ricchezza, più che un ostacolo da abbattere; e nella maternità un’esperienza da salvaguardare, più che da negare.



Questa linea ora, di fronte allo stallo raggiunto dalle politiche banalmente egualitariste – incapaci di dare risposte adeguate, ad esempio, al problema della conciliazione tra famiglia e lavoro – riprende la parola per dire la sua. La dice, nello specifico, a proposito della dimensione lavorativa, ormai lontana da quella vitale, tanto lontana da rappresentarne ormai la contraddizione. «Un’altra organizzazione del lavoro è possibile», recita il manifesto: «non sono i desideri e i tempi delle donne che non sono adeguati al mercato del lavoro. È il lavoro così com’è organizzato che è lontano dalla vita di tutti, donne e uomini». È il lavoro che costringe uomini e donne a dieci, dodici ore di segregazione impiegatizia, quello che nel nome della tanto agognata parità ha appiattito abilità e meriti su un presenzialismo sterile. A dir male della parità, si rischiano tuttora sollevazioni, tanto le donne temono ancora la segregazione casalinga. Ma, mentre le stesse donne si schierano pronte contro il ritorno dell’oppressione patriarcale – che lo stesso femminismo dichiara ora obsoleta – non battono ciglio di fronte alla segregazione impiegatizia, che la veloce evoluzione delle tecnologie rende ancora più obsoleta della prima – e che per giunta le ha obbligate a disfarsi dei figli.



 

L’organizzazione del lavoro, afferma il Manifesto, è estranea ormai ai più elementari desideri degli uomini e delle donne. Inclusa la maternità: alla quale si vorrebbe poter “dire di sì” altrettanto quanto al lavoro. Ma a riguardare la maternità come un desiderio, come una mera istanza femminile, invece che come uno scambio vitale tra genitori e figli, si rischia di perpetuare l’equivoco che ha nutrito provvedimenti come quelli oggi vigenti: che promettono alle lavoratrici madri il più pieno supporto, purché tornino il prima possibile al lavoro, rassegnandosi ad affidare i neonati a terzi a pochi mesi di vita. Una maniera di tutelare la natalità, forse; non certo la maternità, che non può essere derubricata a esigenza individuale, e quindi prescindere dall’ottica dell’altro polo della relazione genitoriale: i bambini

Rientrare immediatamente in attività dopo la nascita di un bambino è dannoso per i neonati, ma le ricerche più recenti mostrano che non fa bene neppure al lavoro delle madri. L’ultima si deve ora a Chiara Pronzato, del Centro Dondena dell’Università Bocconi, che mostra come la protezione della maternità vada di pari passo con la promozione della presenza femminile nel mercato del lavoro: «una protezione protratta nel tempo aumenta la possibilità di ritorno al lavoro, mentre periodi più brevi forzano le madri a fare una scelta definitiva e precoce, con un più alto tasso di abbandono del mercato del lavoro». Secondo la ricerca, occuparsi personalmente del bambino per il primo anno di vita giova alla riduzione del tasso di mortalità dei neonati, alla possibilità di allattamento al seno e conseguente migliore immunizzazione, allo sviluppo delle capacità cognitive del bambino e alla sua carriera scolastica; effetti positivi che sarebbero assicurati da un congedo parentale fosse retribuito per l’intera durata dell’anno. Un suggerimento chiaro per il legislatore: cambiare il mondo del lavoro si può, e a tutto vantaggio delle donne, se si parte dai bambini.