«Le parole di Scola mi ricordano un pericolo presente nella cattolicità italiana. Una tendenza, diffusa sia a livello del clero che del laicato, che potrei definire razionalizzante: quella cioè di cercare di “addomesticare” la fede cristiana in modo da poterla presentare nei termini della cultura moderna». Sandro Magister, vaticanista de L’Espresso, così commenta la recente intervista a ilsussidiario.net del cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia.



Secondo lei la proposta culturale della Chiesa italiana risponde al bisogno spirituale dell’uomo di oggi, per il quale “le due parole dominanti – come dice il cardinale Scola – sono felicità e libertà”?

Credo che il cardinale Scola, pur ritenendo sempre legittima la questione della verità, abbia voluto spostare l’accento sui valori più problematici nel confronto tra la Chiesa e la società attuale. Questa preoccupazione rispende all’esigenza di affrontare la società contemporanea sul suo terreno: felicità e libertà, che sono contrabbandati in qualche modo come i primi ideali di una società che vuole svincolarsi completamente dalla Chiesa, sono in realtà elementi essenziali della fede cristiana stessa. E confinano col tema della bellezza, molto caro a Benedetto XVI.



“L’esperienza del bello – ha detto il Papa sabato scorso agli artisti – , del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità”.

Esatto. La via della bellezza è una via alla trascendenza. E felicità e libertà sono due declinazioni della bellezza. Un messaggio decisamente alternativo a quello lanciato da una parte pur importante della cultura moderna non con la Chiesa ma contro di essa.

Secondo lei che cosa teme di più la Chiesa italiana oggi? I pericoli di una scienza che pretende di manipolare l’uomo, o la politica sprofondata in uno stato di conflittualità permanente?



Opterei decisamente per il primo elemento, perché in fondo la conflittualità politica è un elemento del paesaggio umano che ha sempre accompagnato, e accompagnerà, la dialettica della presenza della Chiesa nella società. Mentre la tecnoscenza oggi pretende qualcosa di molto superiore a quello che pretendeva in passato: di incidere sulla vita umana fino a sconvolgere il dato biologico di partenza. Mostra la pretesa smisurata di influire sulla generazione stessa dell’uomo, e quindi sulla sua identità. Una cosa che la Chiesa non può accettare.

Contro il relativismo e lo smarrimento Scola afferma che c’è un punto fermo sul quale fede e ragione possono incontrarsi: quello “dell’esperienza morale elementare”, la traccia della dimensione spirituale dell’uomo. Quanto conta nella Chiesa italiana di oggi questo metodo?

Le parole di Scola mi ricordano un pericolo presente nella cattolicità italiana. Una tendenza, diffusa sia a livello del clero che del laicato, che potrei definire razionalizzante: quella cioè di cercare di “addomesticare” la fede cristiana in modo da poterla presentare nei termini della cultura moderna. Si trascura o si ignora per mancanza di sensibilità che il patrimonio di fede della Chiesa non è trasmissibile semplicemente cercando di spiegarlo, ma grazie ad un fattore “elementare”, e che consiste essenzialmente in quello che il cardinale Scola chiama l’incontro con una persona.

L’incontro con una ipotesi che spieghi la realtà tutta, afferma.

Ma c’è una precisazione importante da fare. E cioè che anche l’incontro non può e non deve essere pensato in termini astratti. Quando il cardinale Scola dice che l’esperienza elementare è “inaffondabile”, fa una riflessione che a mio avviso rimanda ulteriormente all’idea del bello.

Perché?

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È quello che Benedetto XVI trasmette con grande forza non solo incontrando gli artisti, ma nell’insieme di tutta la sua predicazione: la percezione del divino dev’essere capace di mostrare la bellezza del divino stesso, che può valere molto più di tanti ragionamenti. Quello che può essere identificato con la bellezza Ratzinger in alcuni momenti lo ha identificato in modo ancora più concreto con quella scia che percorre tutta la storia della Chiesa e che è data dai santi e dall’arte cristiana. Sono modelli di percezione, quelli artistici e della santità vissuta, che non abbisognano di grandi ragionamenti, ma di essere visti, guardati, percepiti. È questa l’elementarità della trasmissione della fede cristiana.

 

Un’elementarità, lei dice, che buona parte della Chiesa ha dimenticato.

 

Sì. Basti pensare alla trascuratezza totale che l’arte cristiana ha oggi nella predicazione e nella trasmissione della fede da parte della Chiesa italiana: fatta di persone che predicano ogni domenica, in larghissima misura, avvolti da opere d’arte e non se ne accorgono, né inducono i fedeli a farlo e ad afferrare, attraverso di esse, il bello che è Dio.

 

È ancora possibile secondo lei una “strategia” della presenza cattolica? Scola sembra escluderlo: “l’identità non si comunica con strategie e progetti”. C’è il rischio che l’idea stessa di un progetto culturale cada nella “gestione” della fede?

 

No, direi che il progetto culturale della Cei, nel modo in cui concretamente ha preso forma grazie all’opera del cardinale Camillo Ruini, non è confondibile con questo rischio, anzi porta direttamente nella direzione opposta, incontrando quella indicata da Scola. Il progetto culturale non è uno strumento pensato per essere nelle mani di operatori “politici” che debbano percorrere strade particolari più adatte o consone agli interessi della Chiesa: niente di tutto questo. Per continuare la metafora, con il progetto culturale la Chiesa lavora a tutto campo, in modo “extraparlamentare”: pre-politico e post-politico.

 

Non vede dunque alcuna opposizione tra le due ispirazioni pastorali?

 

No. credo anzi che l’accordo tra Scola e la linea di Ruini, espressa dal progetto culturale, sia fortissimo. Anche se Scola non usa qui la parola “progetto culturale” né la usa mai, è straordinaria l’affinità tra quello che fa e dice e le ragioni alla base del progetto culturale. La mia convinzione anzi è che quello che Scola fa e dice esprime in modo creativo proprio il progetto culturale in atto in Italia.

 

C’è secondo lei un elemento che lega l’azione di Ratzinger a Scola e Ruini?

 

Che ci sia una sintonia di fondo tra queste tre grandi figure non c’è dubbio e io lo penso da molti anni, anche se sono persone che si muovono in modo abbastanza autonomo tra loro, non “concordato”, per così dire. Sono persone che partendo ognuno da una grande ricchezza culturale e teologica con caratteristiche personali e peculiari spiccate, si muovono sostanzialmente in sintonia e trovano elementi comuni molto forti. Filosofia e teologia sono campi nei quali ciascuno di loro, in modo diverso, ha detto e scritto cose importanti. Tutti e tre hanno intuito in anticipo e spiegato cosa è cambiato nella società e nella cultura degli ultimi decenni. Nella loro riflessione hanno affrontato di petto i problemi della modernità, spiegandola nei suoi pregi e difetti, senza rigettarla. E soprattutto, sono ottimisti: hanno grande fiducia nell’uomo, ma la loro è una fiducia realistica, e questo impedisce loro di illudersi sulla difficoltà di trasmettere la fede nel momento presente.