«La gente non arriva nemmeno al concetto del relativismo, ma vive le sue conseguenze, confinata nell’empiria, nella quotidianità, nell’immediatezza. E basta. Gli adulti dovrebbero recuperare la consapevolezza dell’importanza dell’educazione come trasmissione da una generazione all’altra». Continua il dibattito aperto dal cardinale Angelo Scola sulla presenza dei cattolici nella società di oggi. Dopo Sandro Magister e Aldo Cazzullo, interviene Giorgio Chiosso, esperto di sistemi educativi e docente nell’Università di Torino.
Il cardinale Scola afferma che l’emergenza educativa c’è oggi come non mai e che “si tratta di ritrovare le modalità adeguate per educare”. Quali sono i pilastri o i concetti forti di una educazione della personalità oggi?
Prima di tutto occorre richiamare a una responsabilità del mondo adulto anziché lambiccarsi con strategie e aspetti operativi. Gli adulti dovrebbero recuperare la consapevolezza dell’importanza dell’educazione come trasmissione da una generazione all’altra. Questo è basilare. Ciò deve essere attuato dentro una visione complessiva che ridia senso alle cose che quotidianamente si fanno. Al di là delle parole “nichilismo” o “relativismo” ho infatti l’impressione che predomini un forte “indifferentismo”.
Cosa intende dire?
La gente non arriva nemmeno al concetto del relativismo, ma vive le sue conseguenze, confinata nell’empiria, nella quotidianità, nell’immediatezza. E basta. Penso che riusciremo a contenere l’emergenza facendo ritornare all’evidenza il bisogno di un senso educativo ed esistenziale. Poi ritengo che un bisogno importante risieda nei modelli educativi. Non occorre “mettersi a fare educazione”, ma “stare” con coloro che devono essere educati, essere in primo luogo testimoni dell’educazione. Se non recuperiamo questa dimensione possiamo parlare quanto vogliamo, non risponderemo mai all’emergenza educativa.
Una nuova più consapevole presenza cristiana deve, secondo Scola, “far passare attraverso costumi buoni uno stile di vita che sia in grado di rispondere al desiderio di felicità e libertà”. Cosa pensa di questo approccio?
Oggi abbiamo tutta una società, un clima culturale, diversi stili di vita veicolati dai media e dai grandi personaggi che ci circondano che o assegnano il primato alla soddisfazione personale, al soddisfacimento del desiderio individuale o, su un altro versante, trovano il soddisfacimento nell’affermazione di sé attraverso il lavoro. E queste due strategie raramente riescono a mettere di fronte le persone a quella “totalità del reale” di cui parlava don Giussani e di cui è impregnata l’idea di educazione. Perché si fermano al livello dell’esperienza quotidiana, del soddisfacimento dei bisogni più immediati, anche bisogni rispettabili come quello del lavoro. Quando però quest’ultimo oltrepassa la ragionevolezza del tempo dedicatogli e diventa fine a se stesso, diventa un elemento che inibisce la realizzazione dell’umano che c’è in noi. Credo che il grande sforzo sia sempre quello di proporre dei modelli educativi nei quali noi non diciamo tanto come stanno le cose, ma perché stanno le cose.
Secondo lei come il Progetto culturale della Cei è funzionale a questa risposta educativa?
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Il libro “La sfida educativa” è un’opera importante in questo senso. È un libro utile anche ai non addetti ai lavori oltre che agli insegnanti, ai genitori, agli educatori, ai catechisti e a tutte le persone che hanno a che fare con il mondo dell’educazione. È un libro che si sforza di essere “concreto”, esamina i diversi aspetti della vita educativa, dalla scuola al tempo libero, al lavoro e quindi credo che sia un utile sussidio. Certo è che se ci si basa soltanto sull’esperienza del libro evidentemente si avrà un risultato limitato. Io mi auguro che questo testo solleciti molti dibattiti innanzitutto nel mondo cattolico, ma credo diventerà quanto mai prezioso se dal testo passeremo all’esperienza. Dovrebbe essere l’occasione per rivitalizzare tanti aspetti del mondo cattolico, di coloro che si riconoscono intorno all’esigenza di introdurre i giovani alla vita cristiana.
Contro il relativismo e lo smarrimento di noi uomini postmoderni Scola invoca il criterio dell’esperienza morale elementare. Quali sono le potenzialità educative di questa concezione? È un criterio in grado di resistere alla prova delle ideologie riduzioniste?
Certamente la dimensione morale è uno dei principali canali di ingresso dell’evento e del processo educativo, nonché dell’esito educativo. Perché sicuramente ci mette in contatto per un verso con l’idea del bene e per un altro verso con l’idea della responsabilità personale. Credo che uno degli elementi più assenti nel mondo educativo odierno è l’idea che ciascuno sia responsabile non solo verso se stesso, ma anche verso gli altri. Non abbiamo bisogno di andare molto lontano per trovare esempi di relatività morale dove il bene coincide con un bene personale. Naturalmente vincendo, come oggi accade, l’idea di un bene non condiviso, i “beni” diventano quante sono le persone: questo comporta la diffrazione dell’idea di moralità scadendo nel relativismo etico e rendendo comunemente accettata qualunque istanza che torni al soddisfacimento personale del singolo.
Secondo lei è ancora possibile una “strategia” della presenza cattolica in Italia? Il cardinal Scola sembra escluderlo, rimandando tutto alla presenza: “l’identità non si comunica con strategie e progetti”…
In parte ho già risposto parlando del libro della Cei. Sono convinto che dentro il mondo cattolico ci siano molte più risorse educative di quanto comunemente si creda. Queste presenze spesso sono silenti, non hanno una grande visibilità pubblica, ma si realizzano nel microcosmo del territorio, nell’esperienza delle parrocchie, dei gruppi giovanili, delle attività che spesso vengono organizzate in ambiti comunitari. Il vero problema, come dice il cardinale, non credo che sia quello di elaborare a tavolino una strategia, ma quello di ri-animare, fare una trasfusione di sensibilità, di convinzione educativa nel mondo cattolico.
E per quanto riguarda la presenza cattolica all’interno delle istituzioni scolastiche?
Vedo piuttosto debole l’attenzione del mondo cattolico verso la scuola. Se penso a qualche anno fa questa vigilanza era molto più diffusa, forse perché si trattava degli anni della contestazione, gli anni di una iper-ideologizzazione della scuola. Noi però oggi non dobbiamo pensare che la presenza cristiana nella scuola sia affidata al lavoro degli insegnanti di religione. Questa è una mentalità perdente.
Cosa fare allora?
Io penso che invece ci debba essere un’attenzione delle comunità cristiane verso la scuola come un bene comune al quale concorrere, non tanto in una posizione difensiva, ma proprio per sostenere l’educazione. Non possiamo concepire la scuola esclusivamente come una fucina di idee laiciste dalla quale preservare le giovani menti, ma dobbiamo andare positivamente a giocare il nostro ruolo all’interno degli strumenti educativi di cui disponiamo.