Inaugurando la diffusione dei dati sulla forza lavoro su base mensile, l’Istat ha esordito con una brutta notizia: nel mese di ottobre 2009, i disoccupati nel nostro paese hanno superato la cifra di due milioni di persone, oltrepassando il dato sinora più alto, risalente al marzo 2004. Precisazioni a parte – l’aumento del tasso di disoccupazione non coincide con una diminuzione dell’occupazione, ma con l’aumento della ricerca di lavoro: sempre più persone, insomma, si mettono alla ricerca di un impiego -, il numero non può non impressionare, specialmente se riconnesso ai retaggi della crisi economica faticosamente attraversata dall’Europa.



Ma la reazione europea a una simile situazione è stata diversa, per certi aspetti opposta, rispetto a quella italiana. Non solo per le ragioni a lungo esposte dal ministro Tremonti, che ha fatto un vanto della peculiarità della risposta nazionale alla crisi, ma anche per motivi meno lusinghieri. Mentre negli altri paesi dell’Unione, infatti, al momento di difficoltà ha corrisposto un aumento della flessibilità, con la diminuzione del numero di ore per lavoratore, il nostro paese si è mosso nella direzione contraria. Nell’ultimo bollettino Eurostat, risalente all’inizio di Novembre, si spiegava come la riduzione dell’occupazione in area euro fosse attribuibile anche alla riduzione del montante di ore lavorate – quasi un’ora quotidiana in meno -, e al maggiore ricorso al part-time. Non dappertutto, però: in Italia, così come a Malta e in Portogallo, l’orario medio si è ridotto solo di 30 minuti, e l’adozione del part-time, anche in risposta alle difficoltà della crisi, non solo non è aumentata, ma è addirittura diminuita – dello 0,3%, nel nostro caso.



Si tratta di dati rispecchiati in pieno dall’azione governativa, che malgrado i proclami non cessa di mostrare quanto basso sia il valore attribuito alla flessibilità come strumento di conciliazione e di sostegno alla famiglia. Nella conferenza stampa del 1 dicembre indetta dai ministri Sacconi e Carfagna è stato presentato un piano operativo per la conciliazione tra famiglia e lavoro e per l’occupazione femminile, per un valore complessivo di 40 milioni di euro, che sul piano della flessibilità risulta tragicamente insufficiente. Dovendo scegliere su quali provvedimenti puntare per favorire, almeno nelle intenzioni, l’occupazione femminile, il Governo ha preferito puntare sui nidi famiglia, la regolarizzazione di badanti e colf, i voucher per l’acquisto di servizi di assistenza all’infanzia. Misure diverse, ma accomunate dallo stesso principio: quello di delega, che assumendo come punto di partenza intoccabile una modalità lavorativa rigida e ormai obsoleta, finisce per imporre di sacrificare ad essa l’altro polo della conciliazione, la famiglia.



Dell’intera cifra stanziata dal governo, solo 4 milioni saranno destinati a “favorire” il telelavoro – fatto salvo il dubbio sull’effettivo significato da attribuire a questo termine, che può spaziare dal vecchio e marginalizzante lavoro a domicilio alla più dinamica delocalizzazione di mansioni anche di alta responsabilità -; mentre neanche un euro verrà destinato a incentivare quella che risulta ai primi posti non solo tra le misure anticrisi e salva occupazione, come abbiamo visto, ma anche tra i desideri delle madri lavoratrici, non necessariamente interessate a delegare in toto a terzi la cura familiare: il part-time. Difficile credere al ministro Carfagna, quando assicura che gli interventi programmati dal governo consentiranno alle donne «di non dover più scegliere tra lavoro e famiglia», o al ministro Sacconi, che sullo stesso tono aggiunge che le misure sono intese a «conciliare il tempo di lavoro e il tempo da dedicare alla famiglia»: sostenere prevalentemente sui servizi di cura, più o meno professionali, significa dare per scontata la necessità di sottrarre questa cura al suo alveo naturale, di esternalizzarla rispetto al nucleo familiare, per “lasciare” che quest’ultimo si concentri pienamente sulla priorità produttiva. È vero che le donne non dovranno più scegliere, insomma: ma solo nel senso che qualcun altro avrà già scelto per loro, con buona pace della libertà di scelta, del valore della famiglia, della sussidiarietà.