Ho accompagnato negli anni più di venti giovani uomini e donne all’ultimo minuto della vita. Ventitre, per la precisione. Ogni pensiero, racconto, biasimo, disperazione, nostalgia e pentimento, di ciascuno di loro, è divenuto parte integrante della mia vita, moltiplicatore del pensiero, fomento del cuore. Infine, più e meglio del cuore solitario che all’inizio era duro, pungolo di fede. Ho fatto questo da volontario, da paziente a mia volta e da volontario al fianco di pazienti affetti da patologie incamminatesi e poi giunte allo stadio terminale. È il cancro, il male del quale ho imparato a conoscere i morsi e le insidie, fino all’estremo grado della sedazione per attenuare dolori indicibili e apparentemente oltre ogni soglia del sopportabile, fino alla perdita graduale di coscienza e poi nella più o meno lunga anticamera dell’addio, nella lunga lotta che i farmaci più avanzati consentono al progredire del male. Lo ammetto: lo stato vegetativo permanente postraumatico di Eluana Englaro non è la frontiera che ho battuto e attraversato accompagnando i miei amici, nella dolorosa cognizione del dolore. Un’esperienza che ha finito per rappresentare la parte più ricca, incommensurabilmente più rigenerativa del senso e del tessuto stesso della mia vita interiore, della radice di “me persona” e del come e del perché su questa Terra siamo chiamati gli uni agli altri, per un centuplo di quanto la mia formazione e cultura originaria individual-laicista avesse iscritto nella dimensione preminente dell’io e del sé.



Ho pensato e penso a ciascuna di queste ventitre storie, ogni momento che la vicenda di Eluana ha affocato fino allo spasimo la cronaca e la politica nazionale. Non desidero dare giudizi su Beppino, come su alcun altro della cerchia più ristretta di Eluana. Ho imparato a non darli, a non reagire nemmeno ai familiari che imprecavano maledicendo, di fronte alla disperazione di una perdita graduale ma avvertita comunque come ingiusta e inaccettabile, innanzitutto perché dolorosa e protratta, invece che improvvisa e serena.



So con certezza che il caso di Eluana non rientrava nell’ambito di una norma condenda sul testamento biologico, poiché nel suo caso mancavano inoppugnabilmente manifestazioni autentiche e inequivoche del suo pensiero in materia di accanimento terapeutico. So con altrettanta certezza che, al posto del giudice di Milano succeduto a quello di diverso avviso di Lecco, avrei ritenuto mio scrupoloso dovere ricostruire il più possibile delle convinzioni originalmente espresse da Eluana, convocando e soppesando ciascuno che fosse entrato con lei adolescente in contatto, e non solo gli amici e il perito indicati dall’istanza di parte. So con altrettanta certezza, alla luce delle mie cognizioni che ritengo sufficientemente documentate, che le nozioni cliniche in materia di morte cerebrale si sono largamente e fortunatamente evolute, rispetto a quanto venne codificato nei primi anni Settanta, poiché ancora largamente sconosciute sono le capacità “plastiche” delle diverse aree del cervello, anche a distanza di anni da interruzioni delle funzioni e reazioni corticali, subcorticali e mesencefaliche.



Il saluto silenzioso che ieri sera ci ha reso Eluana ha messo in scacco, praticamente, ogni partito tardivamente accesosi sul suo caso. Dico tardivamente perché solo un mondo che ha ablato dall’ordinaria quotidianità la cognizione del dolore e della malattia, degli stati considerati terminali come quelli di coma vegetativo, può accendersi improvvisamente quando tutto rischia di essere tardivo, com’è stato, anche sul caso che ha animato e diviso le coscienze degli italiani. Nella mia esperienza, migliaia di morti ogni anno avvengono negli ospedali senza porsi l’interrogativo che merita ogni vita umana. Ed è questo, il tormento più grande a ispirarmi il silenzio, di fronte al caso di Eluana. Ma viviamo in un mondo che ignora la quotidianità e si divide sull’eccezionalità, lo capisco benissimo. Anch’io faccio il giornalista, dunque non posso stupirmi.

Ciò malgrado, per me la persona vive e rappresenta un valore che viene prima e “sopra”, rispetto a ogni legge e a ogni Stato. Per questo non mi ha appassionato il pangiuridicismo contrapposto, con il quale si è affrontato senza esito il caso di Eluana. Né, tanto meno, l’esagitarsi sul preteso vulnus alla Costituzione: lasciamo questa commedia al tribalismo di cui è intessuta la miseria purtroppo persistente del bipolarismo italiano. Chi è insorto in nome della legge e della Costituzione che non si cambia, ha abbracciato nel caso di Eluana la paradossale estrema incarnazione data dai nostri tempi allo Stato etico: no allo Stato che decide la legge per mano del legislatore, sì allo Stato in cui un giudice da “bocca della legge” diventa colui che la legge la detta e la “fa”. Mi hanno insegnato al primo anno di giurisprudenza che un atto di volontaria giurisdizione, come quello della sentenza milanese confermata dalla Cassazione e infine applicata, non è affatto una sentenza ed è dunque sempre impugnabile e rivedibile. Del tramonto di ogni principio elementare di civiltà del diritto, vive la prevaricazione di chi confonde morte per decisione di un giudice con liberazione dal peso della vita.

Il mistero della morte di Eluana, per chi continuerà a viverla come simbolo e sacrificio delle nostre contraddizioni pubbliche e private, è lo scambio tra ciò che decidere non può, con chi di decidere non ha avuto per troppo tempo voglia. Uno scambio senza possibilità di ritorno. Irreversibile. Almeno per chi non ha fede. I ventitre compagni del mio cuore, comunque, dal silenzio mi inducono a pensare che, con la fede, anche questa morte ci ha aiutato. Se sapremo fare appello a ciò che ci rende uomini, invece che a ciò che ci fa gridare come animali.

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