La vicenda di Eluana Englaro non è solo questione di confronto di opinioni. Ora che ad Eluana verrà probabilmente staccato il sodino, ci si interroga anche su quelle che saranno le conseguenze pratiche, dal punto di vista medico e fisico, di questo atto. Quanto durerà la sua agonia? Soffrirà o non sentirà nulla? Sarà opportuno sedarla?
Il discorso è delicato e merita il massimo dell’obiettività. Per fare questo abbiamo contattato il prof. Antonio Pesenti, ordinario di anestesiologia all’Università Bicocca di Milano. Non solo un esperto del settore, ma anche e soprattutto una persona con una posizione assolutamente neutrale, e che non ha, sulla vicenda Englaro, risposte certe a favore dell’una o dell’altra opinione.
Professor Pesenti, cerchiamo di capire innanzitutto dal punto di vista medico quello che ora accadrà a Eluana: quanto durerà la sua agonia, e quanto soffrirà Eluana?
Se ci rifacciamo al precedente del caso Terri Schiavo, ne dobbiamo ricavare che l’agonia possa durare circa due settimane; d’altronde si sa che senza idratazione si può sopravvivere dai dieci ai quindici giorni. Per quanto riguarda invece la questione del dolore entriamo invece nel campo delle supposizioni, perché la situazione è molto confusa. La diagnosi di stato vegetativo persistente è accertata, e in tale stato la capacità di una persona di percepire il dolore è dubbia. Diciamo, anzi, che in generale si pensa non ci sia la cosiddetta percezione cosciente del dolore. Ma questo non ci può certo portare a concludere che il dolore non sia percepito in nessun modo.
Ci può aiutare a capire meglio questa distinzione?
Facciamo un esempio che può chiarire: in una situazione di anestesia generale, è naturale presumere che il paziente non percepisca il dolore. Detto questo, può però accadere che, mentre il chirurgo opera, il malato diventi tachicardico, o abbia un aumento di pressione. Al che l’anestesista può ipotizzare che l’anestesia sia troppo leggera, e decida dunque di approfondirla. Questo non significa che il paziente abbia avuto una percezione cosciente del dolore, che anzi presumibilmente non c’è stata, ma un’altra forma di dolore che richiede, in via precauzionale, l’ulteriore intervento. Quindi la prudenza suggerisce, nel caso di Eluana, di impiegare dei sedativi, cosa che invece nel caso di Terri Schiavo non è stata fatta. Anche se non sono sicuro che lei percepirà il dolore, mi pare che sia opportuno sedarla.
Fa impressione però pensare a un’équipe di medici e infermieri impegnati a condurre un paziente a una morte che da loro stessi viene provocata: questo non crea problemi dal punto di vista deontologico?
Di certo un medico non deve abbandonare il paziente. Nel momento in cui dovesse decidere per l’opportunità di staccare il sondino, questo non significa che debba chiudere il paziente in uno stanzino e lasciarlo lì a morire; ha comunque l’obbligo di accompagnarlo. Dopodichè possiamo giudicare se tale scelta sia giusta o sbagliata; ma questa è tutta un’altra considerazione. Una volta però che si è deciso di farlo, allora bisogna accompagnare il paziente.
Ma secondo lei è accettabile questa scelta, sempre affrontando la questione in termini di deontologia professionale?
Quello che constato io è questo: il personale sanitario di Lecco non era d’accordo con le richieste del suo tutore; quelli di Udine invece sì. Secondo me entrambe le scelte sono rispettabili. Che possa creare problemi o no il fatto di staccare il sondino, è una questione che mi pare legata a determinate interpretazioni: a me personalmente creerebbe dei problemi, e non potrei certo dire che sarei disposto a farlo a cuor leggero. Però sono situazioni del tutto particolari, in cui bisogna tener conto della storia, dei fatti, della posizione del padre. Certamente la scelta della morte per sospensione dell’idratazione e dell’alimentazione è la scelta più tragica che si possa intraprendere.
Cosa pensa dei molti interventi con cui in questo periodo si sono date indicazioni ai medici sul da farsi, dalle varie sentenze all’atto di indirizzo del ministero?
Gli indirizzi generali non sempre valgono per ciascuno, e per questo esiste ad esempio l’obiezione di coscienza. Devo però aggiungere che spesso si confonde il ministero della sanità con il sistema sanitario nazionale: il sistema sanitario è un sistema assicurativo che garantisce le prestazioni, il ministero garantisce la qualità. Il ministero, ad esempio, può autorizzare un farmaco, e il sistema sanitario nazionale non pagarlo. Naturalmente si evita che ciò accada. Ma mi pare comunque che in questa situazione si siano spesso confusi i ruoli.
Ora si sta aprendo il dibattito sul testamento biologico, e anche qui il problema del ruolo del medico è fondamentale: qual è la sua opinione?
Il testamento biologico rischia di essere un’arma a doppio taglio. Cosa faremo quando arriverà un paziente che per cultura, per scarsa conoscenza dei fatti, per marginalità di vita non sappia nemmeno cos’è il testamento biologico? Per certi versi ci esponiamo al rischio opposto, perché certamente il fatto di privilegiare l’autonomia del paziente porta talvolta a situazioni difficili da gestire. Con chi non ha il testamento mi accanisco fino allo stremo, sempre e comunque? È un problema di cui tener conto. Detto questo, il testamento comunque ha tutti i fondamenti per essere una scelta civile. In termini assoluti non può essere giudicato né buono né cattivo, perché tutto dipende poi da come viene regolato nel dettaglio.