Ricordo un dibattito radiofonico in cui un cattolico che si autodefiniva progressista respingeva la mia affermazione sul fatto che in Plaza de Colon, riunito intorno al papa Giovanni Paolo II, c’era il popolo cristiano. C’erano circa due milioni di persone, di ogni età e condizione, ma secondo il sapiente lì non c’era il popolo.
Quelle persone che portavano con loro le proprie speranze e debolezze, che forse non erano particolarmente brillanti in un campo piuttosto che in un altro, ma che mostravano la loro gioia di riconoscersi intorno al testimone di Pietro, non riunivano in sè le condizione dettate dal “cristiano adulto” per riconoscergli la caratteristiche di popolo.
Questo è ciò che succede al vecchio Hans Küng, vecchio non per la sua età ma per l’odore che emana dai suoi proclami rifatti. Su Le Monde, il tempio del progressismo europeo, il vecchio Küng ha detto che la Chiesa corre il rischio di trasformarsi in una setta e che milioni di cattolici non si aspettano più nulla da questo Papa.
È lo stesso Küng che, tra i principali intellettuali europei, alla fine degli anni ’70 ha lanciato un anatema contro il pontificato di Giovanni Paolo II, lo stesso che annunciava catastrofi durante il Conclave che ha eletto Benedetto XVI, lo stesso che da fin troppi anni ha abbandonato la casa del padre per rinchiudersi nei propri sogni. Certamente, lui sa molto di sette, dato che settario è chi fugge dall’insegnamento degli apostoli per costruire la sua propria immagine della fede. Il suo premio, triste e scarso, è l’applauso di coloro che eliminano la presenza storica del cristianesimo nella nostra società, qualche cosa che sembra farlo riflettere.
Ma il popolo di Dio, a volte brillante come un ampio fiume e altre volte consumato e ferito, come ha detto Paolo VI, è sempre vicino al suo pastore, e non dove vorrebbe metterlo il partito dei sapienti. La scorsa domenica, dopo l’Angelus, Benedetto XVI si è rivolto ai pellegrini tedeschi con queste significative parole: «Cristo ha scelto Pietro come roccia su cui costruire la sua Chiesa […]. Chiediamo a San Pietro che, per sua intercessione, le confusioni e le tempeste non colpiscano la Chiesa, che permaniamo fedeli a una fede genuina, che ci manteniamo in unità e viviamo nell’amore reciproco».
Sono parole che esprimono la piena coscienza che ha il Papa di ciò che sta succedendo. Ma, al contrario di quel che alcuni dicono in buona fede, egli non ha perso la pazienza, ma mantiene con serenità il comando del timone. Come mi ha detto recentemente uno dei suoi collaboratori, egli sa, come un buon cristiano, che sebbene debba fare tutta la sua parte, in ultima istanza chi risolve i problemi della Chiesa è il Signore.
E mentre soffiano i venti, il Papa continua senza tregua la sua opera di inserire la novità introdotta dal Concilio Vaticano II nella continuità della tradizione. È questo che dà fastidio a persone come Küng, che avevano decretato la nascita di una nuova chiesa. A Pietro compete di sostenere le legittime particolarità nella Chiesa, e allo stesso tempo fare in mdo che queste non pregiudichino l’unità, ma che anzi cooperino a essa. Ed è vero che per realizzare questa missione può solamente esibire l’autorità ricevuta da Cristo, e non i pomposi titoli dei sapienti sullo stile di Küng.
Viene al pettine il severo avvertimento pronunciato da Benedetto XVI alcuni giorni fa: là dove la fede degenera in intellettualismo e l’umiltà è sostituita dall’arroganza di credersi migliori degli altri nasce una caricatura della Chiesa, che dovrebbe essere una sola anima e un solo corpo.