Nel giudicare i conti di Rcs-Corriere della Sera, diffusi mercoledì scorso, e i continui summit “casalinghi” dei grandi soci sul nuovo direttore da scegliere (probabilmente anche sull’amministratore delegato), si potrebbe essere molto irriverenti. Ma sarebbe ingiusto, perché il quotidiano di via Solferino, nel bene e nel male, rappresenta pur sempre un pezzo importante di storia italiana e milanese, un giornale atipico nell’editoria mondiale, che ha sempre riassunto la capacità di essere al contempo “il più diffuso e il più autorevole”, nonostante la concorrenza che da tre decenni tenta di fargli “la Repubblica”.



Il fatto è che anche il Corrierone ha perso tempo nel rinnovarsi. È rimasto ancorato a una “proprietà imprenditoriale” più simile a un “club di tennis o di golf” (parole di Tarak Ben Ammar), piuttosto che a un coraggioso editore di una nuova epoca mediatica di informazione globale. E così è andato incontro, con una certa irresponsabilità del suo management, a una doppia crisi: quella ormai cronica della carta stampata, che da anni si può nitidamente vedere in tutto il mondo, e alla crisi globale che sta piegando la finanza e l’economia in questi mesi.



Nel bilancio di fine anno c’è la spiegazione documentata di questa crisi. I guadagni sono ridotti a 38,3 milioni di euro, rispetto ai 220,3 milioni dell’anno precedente. Il dividendo, riservato alle azioni-risparmio è di tredici centesimi. Del resto l’andamento del titolo in Borsa è in linea con un’ondata ribassista che non conosce neppure “fiammate” di recupero: 56 centesimi. E pensare che ai tempi dei cosiddetti “furbetti del quartierino”, Stefano Ricucci aveva un pacchetto di quasi il 20% al valore di quattro euro per azione. Sembra passato un secolo!

Ma andiamo avanti con i conti e soprattutto con la grande preoccupazione di quel “circolo di editori” uniti da un anacronistico “patto di sindacato”. Siamo arrivati ormai a 1,15 miliardi di euro, con una perdita, da un anno all’altro, di 180 milioni di euro. Si badi bene che tutto questo avviene con contratti giornalistici che risalgono ormai a “un’epoca preistorica” (non si fanno più), con una continua lievitazione del prezzo dei giornali, con i vergognosi sussidi statali all’editoria, con la proliferazione di fascicoli-gadget e altre iniziative di dubbia consistenza. In più si è andati a investire in Spagna dove la “doppia crisi” dell’editoria sta colpendo più che in Italia.



Per concludere, nell’articolato e burocratico comunicato, si fa anche una previsione per il futuro, cioè per l’anno 2009: le cose andranno peggio. Incredibile il tono del comunicato di Rcs nel suo burocratese-politicamente corretto: «Attenzione sarà rivolta alla situazione finanziaria, non escludendosi revisioni del perimetro, compatibilmente con l’andamento del mercato, rispetto alle attività che verranno ritenute non core». Una frase che, per il lettore medio del giornale di via Solferino, è probabilmente un cruciverba, ma che tradotto in italiano normale significa: tagli, ridimensionamenti, licenziamenti, cassa integrazione e prepensionamenti, sacrifici, lacrime e sangue.

Poi c’è la consueta sorta di ammiccamento al pianeta new media, dove ci si arriva, come in un ritornello, quando in tutto il mondo occidentale si stanno già facendo progetti e realizzazioni da anni. Inevitabili i commenti del giorno dopo: si pensa a soluzioni drastiche! Ma fin qui ci eravamo arrivati tutti e non c’era bisogno di comunicati e commenti in burocratese corretto.

È strano invece che, di fronte a questo “pezzo di storia italiana”, tutto il dibattito sembra concentrato intorno alla figura del nuovo direttore e al dopo-Paolo Mieli e al probabile dopo Antonello Perricone. Nel salotto di casa di Marco Tronchetti Provera, una parte dei “grandi soci” (che poi sono quelli che contano) hanno soppesato, a quanto si dice, la figura dei nuovi candidati da un punto di vista di “area politica” o di “area di riferimento”, che allo stesso tempo piaccia a una redazione e a delle redazioni che, in quarant’anni sono passate, cresciute e parzialmente modificate all’insegna dell’allineamento agli ondeggiamenti della sinistra italiana, compreso il periodo in cui il Corriere era targato P2. Ma dal salotto di Tronchetti, al momento, non è uscita una soluzione convincente, ma una “rosa di nomi” che si consoce da tempo.

Ma sembra lecito dubitare che un “nuovo fulmine” di guerra, un “demiurgo”, alla direzione e nella stanza dell’amministratore delegato, possa risolvere quella che è un’altra crisi più profonda, storica, del Corriere della Sera. Seguendo un andazzo ormai secolare (da quando la famiglia Crespi si insediò, con l’auspicio del ras Roberto Farinacci, nella proprietà del giornale al posto della famiglia Albertini), il Corriere è stato sempre una sorta di “gioiello” che deve “indirizzare l’onda” dell’informazione in modo non sgradito ai grandi poteri di questo Paese. Non tanto i poteri politici, ma soprattutto quelli finanziari e industriali.

Sarà un giorno interessante, quando si ricostruirà l’allucinante vicenda che ha dovuto passare Angelo Rizzoli, uno dei pochi editori puri di questo Paese, che, dopo aver acquistato il Corriere della Sera, fu travolto da una sequenza di disavventure fino alla galera e alla spoliazione dei suoi beni, per essere riabilitato dopo ventitre anni.

Secondo gli esperti di “cose di via Solferino”, Rizzoli alla fine è stato anche fortunato, perché la vulgata è sempre stata questa: «Chi tocca il Corriere, muore». E gli esempi, con relativo elenco, non mancano. Ma in sostanza, tutto questo rileva che il Corriere della Sera, per la sua proprietà, non sembra un’impresa da salvaguardare, da far funzionare e da innovare alla luce dei grandi cambiamenti tecnologici nel campo dell’informazione. Il Corriere sembra un bellissimo orpello da custodire in un “salotto” chiuso, in cui solo chi vi fa parte, può veramente “contare”. Per cui se si guarda solo il “patto di sindacato” nell’azionariato del Corriere, sembra di entrare in un’assemblea di finanzieri e industriali.

Alla fine, è legittimamente piuttosto complicato, per un giornale come il Corriere, parlar male di certe macchine o di certe scarpe, oppure di quasi tutti i prodotti che sono usciti in questi anni dal supermarket finanziario. Ma in questo modo il direttore diventa una sorta di equilibrista che deve tener conto soprattutto degli interessi dei suoi azionisti e poi cimentarsi in un doppio-pesismo che sfuma nell’irrilevanza di fronte alla valanga di notizie che oggi si possono trovare su televisioni tematiche e nei diversi siti internet.

Così, il Corriere di tanti finanzieri e imprenditori, tutti editori improvvisati, può guidare la “battaglia per la difesa del liberismo italiano” e nello stesso “provare interesse e curiosità” per i libri “neo-neorevisionisti” dello storico Luciano Canfora, che in Germania non viene pubblicato perché scambiato per il moderno Zdanov dello stalinismo e del comunismo.

Forse il Corriere si merita qualche cosa di più, anche nella sua storia contraddittoria. Alla fine non serve tanto il ricambio di un direttore, con “nuovi o vecchi cavalli” che tranquillizzino tutti, da Silvio Berlusconi a Diego Della Valle, ma piuttosto un editore, un moderno, grande editore coraggioso, che ne faccia veramente un’autentica impresa editoriale. Molto semplice, a nostro giudizio, e per questo, nel panorama della classe dirigente italiana, quasi impossibile.