Un’altra giornata strana quella di oggi. La classica gita di Pasquetta per gli aquilani è un lontano ricordo. E proprio le montagne abruzzesi, la catena del Gran Sasso, che il Lunedì di Pasqua erano punto di riferimento di famiglie, gruppi di amici, con improvvisati fuochi per cucinare la carne, spiazzi per giocare a pallone, erano la conferma che il dramma rimane dentro gli abruzzesi.
Su L’Aquila, ma soprattutto nelle tendopoli, per la prima volta si è abbattuta la pioggia. Un elemento naturale maledetto dagli sfollati. Disagio non solo per l’acqua, per l’umidità dentro le tende ma anche per il freddo. Faceva freddo a ora di pranzo, un pranzo frugale per chi non aveva qualcosa sopra la testa. La giornata più brutta vissuta in questi sette giorni. La pioggia divide, vengono meno i momenti di confronto, di aiuto reciproco.
Per me è stata una giornata difficile. Abbiamo cominciato a pensare al futuro, al fatto che devo continuare a lavorare a L’Aquila. Alla direzione del giornale verrà chiesto di mettere un camper. Sarà strano per me lavorare in condizioni da terremotato. Vedremo quali saranno le decisioni. Ma già da adesso invito tutti a venirmi a trovare. Dopo otto giorni di tensione anche io comincio a sentire il bisogno di un nuovo modo di rapportarmi con il lavoro.
È stata una settimana di stress e la stanchezza comincia a farsi sentire. È stata però una settimana importante per la mia vita. Ho avuto modo di riflettere di me, dei rapporti con la mia famiglia, con gli amici, con i colleghi di lavoro. Avevo in programma tre giorni a Rimini la prossima settimana, salteranno anche questi. Ma so anche che il mio modo di lavorare sarà diverso quando ricominceranno le pagine di cronaca e terminerà l’emergenza terremoto. Un rapporto che cambia con le persone, un’attenzione più grande come grande è la vita.
A L’Aquila adesso si corre dietro al Procuratore della Repubblica. Noi cronisti siamo chiamati a capire come procedono le indagini sugli edifici crollati. Edifici privati e pubblici costruiti tra gli anni Sessanta e Settanta che non potevano sbriciolarsi. Oggi ho assistito alla felicità di un ragazzo, che in mezzo alle macerie ha ritrovato il suo gatto. Non sperava più di ritrovarlo dopo la fuga la notte del terremoto. E il micino gli si è avvicinato senza timore per farsi prendere in braccio e abbracciare.
Un abbraccio d’amore, come quello di due bambini, in una tendopoli di un paesino di montagna, dove faceva veramente freddo. Due cuginetti che si sono reincontrati il giorno di Pasquetta dopo aver vissuto giorni in due tendopoli diverse. Due bambini che parlavano di terremoto come due adulti. «Ho avuto paurissima», ha detto il primo. «Io no – ha ribattuto il secondo – il mio papà è forte mi ha preso in braccio e mi ha portato sul prato». È sempre l’abbraccio di un padre che salva.
(Fabio Capolla)