Dopo le dichiarazioni del premier intenzionato alla realizzazione di una “città di fondazione” da affiancare a L’Aquila, per garantire una casa agli sfollati e un’architettura moderna in grado di resistere ai terremoti, s’è subito levato un coro di proteste. In parte, è innegabile, si tratta di accuse ideologiche che cavalcano l’onda della sciagura. Ma c’è anche chi, pacatamente e senza anteporre preferenze politiche, cerca di spiegare come una soluzione simile, sebbene all’apparenza sia allettante, non risolverebbe in realtà alcun problema. A dirlo è Stefano Boeri, architetto di fama internazionale, autore, tra l’altro, di uno dei maggiori progetti previsti per l’Expo 2015 di Milano, i famosi Boschi Verticali  



 

Architetto, nel dibattito suscitato dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio sulla cosiddetta “new town” da costruire presso L’Aquila per offrire ricovero agli sfollati, si sono levate numerose voci contrarie alla proposta e quasi tutte appartenenti al mondo dell’architettura. Qual è la sua opinione in merito?



Personalmente anch’io non sono favorevole di primo acchito alla costruzione di una New Town. Sebbene la tentazione del “nuovo” sia attraente occorre considerare che il nostro è un paese che negli anni ha consumato più suolo di quanto non abbiano fatto Francia e Germania insieme. Questo, se ci pensiamo è già di per sé un dato impressionante. L’Italia è dunque una nazione dove s’è costruito tantissimo, spesso “mangiando” anche piccole zone naturali, che sarebbe stato meglio preservare, per l’espansione delle città. Oltre a questo primato segue anche il fatto che il nostro patrimonio di edifici e di appartamenti non utilizzati, sia nel campo della residenza sia del terziario, è il più alto in Europa, cioè abbiamo migliaia e migliaia di appartamenti sfitti e altrettante migliaia di uffici non utilizzati.



Occorre dunque sfruttare quanto già c’è?

È chiaro. In uno Stato come il nostro l’idea di costruire nuovamente mi sembra un grosso errore, dobbiamo riflettere e procedere con maggior calma. In primo luogo penso che sia molto meglio cominciare a lavorare all’interno di quello che è già costruito, cercando di recuperare tutto ciò che si può salvare e ancora utilizzare. E, nel caso di tutte le altre zone a rischio sismico nazionali, fare un grosso lavoro per valutare dove intervenire con opere di demolizione e ricostruzione e dove invece andare a migliorare la situazione con opere di consolidamento. Ma, preciso, eviterei in qualsiasi modo l’idea di fare “città di fondazione”, sono davvero l’extrema ratio.

Ma non si tratterebbe di una soluzione più rapida costruire una “New Town”?

No, tutt’altro. Il costo sarebbe uguale e i tempi analoghi. Con il rischio di lasciare la città vera in rovina. Il che comprometterebbe ulteriormente il territorio

Ci si domanda anche se è possibile ricostruire salvaguardando sia la sicurezza dei cittadini sia l’immagine e il ricordo della vecchia città, senza cioè compromettere gli edifici storici. Che risposta ci dà?

Certo che è possibile. Ci sono parecchi esempi di città storiche ricostruite. È ovvio che occorre avere un atteggiamento molto attento e molto lucido, che non dia adito ad alcuna ipocrisia, e capire dove ha un senso recuperare e dove invece è preferibile demolire. Non ci si deve ostinare nella conservazione fine a se stessa. Ma, a ben vedere, si tratta di scelte che riguardano tutte le comunità urbane esistenti a questo mondo. Di solito infatti, anche se è un po’ cinico descriverlo in questi termini, il terremoto è una forma di catastrofe in cui una serie di processi e di eventi, che in genere si dipanano su di un tempo medio lungo, vengono concentrati in un tempo brevissimo. Questo significa che molti interventi che erano inevitabili vengono per così dire coinvolti nel processo catalizzatore del terremoto. In senso positivo, ovviamente non sto parlando dei risvolti tragici, può essere visto come occasione di rinascita urbanistica.

Un’altra polemica riguarda il fatto che molte case nuove hanno ceduto, sono cadute. La colpa è da attribuire alle amministrazioni avvicendatesi nel corso degli anni oppure, vista l’intensità del terremoto, non c’era nulla da fare?

Parte delle nostre città è stata ricostruita dagli anni che vanno dal ’45 al ’75. Soprattutto la fase finale di questo periodo è stata caratterizzata dal famoso “boom” economico italiano. In molti casi assistiamo a edifici costruiti in modo veloce e superficiale per assecondare il ritmo di allora. Questo ha fatto sì che spesso si verificassero casi di abitazioni tirate su senza nessuna attenzione, attraverso pochissimi controlli e con materiali scadenti. Sono strutture inadeguate che spesso hanno anche l’aggravante, proprio perché recenti, di apparire di sana costituzione, mentre a volte sono più rischiose di altre costruite secoli prima. Inoltre un altro pericolo consiste nel fatto che spesso questi edifici sono adibiti a funzione pubblica come gli ospedali (è il caso proprio di quello de L’Aquila), scuole, carceri e quant’altro.

Una leggerezza che può essere davvero fatale dunque

Altroché. Se si considera l’ospedale dell’Aquila, o il famoso caso della scuola di San Giovanni di Puglia si può notare come si tratti di tipici edifici costruiti nel periodo che ho indicato, privi cioè di quei fondamentali requisiti strutturali che oggi, fortunatamente, sono d’obbligo. Bisognerebbe analizzare le strutture costruite in quegli anni una per una e decidere, caso per caso, o di demolirle o di lavorare a un loro consolidamento. Ma in generale occorre per tutto il territorio italiano dare il via a una monitorizzazione di ogni edificio a partire, ovviamente, dalle zone a più altro rischio di sismicità.

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