Torna la voglia di cantare. Canzoni che i genitori insegnavano ai figli. «“L’Aquila bella me”, era il leit motiv quando in macchina andavamo al mare – racconta Elena – con una utilitaria. Tutte le curve della statale che scavalcava il Gran sasso, non c’era ancora l’autostrada che passava sotto. “L’Aquila bella me” la cantiamo in coro, oggi, nella tendopoli. Un forte richiamo alle nostre radici, un profondo ricordo alla città che era fino a poche settimane fa».
Un coro allegro, forse un po’ stonato. Ma c’è la voglia di essere comunità, di vivere e rivivere momenti di felicità. C’è la voglia di far diventare importanti quelle azioni compiute metodicamente. Azioni che adesso, nei ricordi, diventano rito, diventano forza per pensare al domani.
«Le passeggiate per il corso, la messa a San Bernardino la domenica, l’acquisto delle paste prima di tornare a casa – i ricordi sono tanti – e dopo la pasticceria il pranzo con tutta la famiglia». Dentro le tende si rimpiangono momenti della vita quotidiana che oggi sono ricordi. La famiglia unita, la voglia di stare insieme, fosse solo per il pranzo della domenica. «Adesso vorrei rivivere quei momenti, felicità spensieratezza. Il terremoto ha cambiato le nostre vite. Non c’è più un pranzo che ci fa stare insieme, dove odori e profumi contribuivano a rendere ancora più piacevole quel momento. Adesso si mangia perché lo si deve fare».
Difficoltà a vedersi, a rincontrarsi anche tra amici. «Una volta l’appuntamento era fisso. All’ora dello “struscio” tutti sotto i portici, chi verso i Quattro cantoni, chi a Piazza Duomo. Quella è la città che ora ci manca. La città dei passi lenti, dei silenzi e delle urla. La città dello stare insieme. Oggi gli amici sono sparsi, chi in una tendopoli, chi al mare, chi a Roma da parenti. Si rischia la solitudine».
Più si allontana il giorno del terremoto, più emergono le difficoltà di una vita quotidiana che non ha più molti punti di riferimento, come i luoghi dove ritrovarsi, gli amici con cui confrontarsi. «Quando penso al futuro immagino la città come era – ha finito il suo racconto Elena – ripenso a mi nonno, vorrei poterlo riportare a passeggiare in quella città che rappresenta le sue radici. La più grande preoccupazione è di ridiventare un popolo senza identità».
Un’identità da ricercare nello sguardo dell’amico, un’identità già ritrovata nella voglia di cantare in coro la canzone di quando erano bambini.
(Fabio Capolla – Giornalista de Il Tempo)