Joseph Ratzinger è tornato all’Abbazia di Montecassino, la quercia secolare piantata da San Benedetto, quattro volte distrutta e altrettante ricostruita come segno del fatto che il male non prevarrà sulla storia che ha iniziato Gesù. In molte occasioni precedenti aveva pregato e meditato al calore di questa culla della grande rivoluzione benedettina, ma ora è tornato indossando i sandali del pescatore di Galilea. Il gesto e i suoi messaggi racchiudono un grande valore per affrontare questo momento presente.



Papa Benedetto non ha una vocazione da archeologo né da direttore di musei. È ben cosciente del fatto che la Chiesa è un soggetto vivente nella storia, dove non ha spazio la nostalgia ma la memoria, che è una cosa ben diversa. La sua evocazione benedettina non ha nulla di romantico, è una coscienza del valore del metodo che rappresenta l’esperienza di San Benedetto e dei suoi monaci per i dilemmi della Chiesa nel presente.



Lo ha dimostrato a Parigi con la sua indimenticabile lezione al Collegio dei Bernardini, dove ha messo in rilievo il modo in cui la fede vivida nei monasteri ha generato la cultura della parola e della musica, l’amore al lavoro e una comunità armonica e in pace. Mantenere vive queste dimensioni essenziali dell’anima europea, ha detto a Montecassino, «è possibile soltanto se si accoglie il costante insegnamento di san Benedetto, ossia il “quaerere Deum”, cercare Dio, come fondamentale impegno dell’uomo. L’essere umano non realizza appieno sé stesso, non può essere veramente felice senza Dio».



Questo è l’unico cuore che può pompare sangue per un nuovo rinnovamento, per un nuovo principio cristiano nel duro e arido suolo della nostra Europa del XXI secolo. Ciò vuol dire che solamente da uomini e donne riuniti dalla chiamata di Cristo, che sperimentano quotidianamente il plus di umanità che significa vivere facendo parte del corpo della Chiesa, potrà nascere un cambiamento che influenzi i diversi strati della società europea.

Nel corso dei secoli, i monasteri hanno tessuto una rete di comunità in cui la fede si univa con la ragione, si esercitava quotidanamente la carità, si accoglieva chi arrivava desideroso di trovare il senso dell’amore e della sofferenza, e lo si invitava a percorrere un cammino di educazione e verifica. Oggi nemmeno possiamo incominciare questi passi, dato che la forma delle nostre comunità non è quella delle robusta mura dei monasteri, ma quella dettata dalle varie circostanze che viviamo.

I popoli dell’Europa hanno sperimentato un autentico riscatto, ha detto molto bene Benedetto XVI riferendosi alla feconda trasformazione che hanno portato a termine i monaci lungo secoli di paziente lavoro missionario. E se guardiamo oggi la situazione delle nostre città, dei nostri centri di lavoro e cultura, dei nostri mezzi di comunicazione, questo riscatto è ancora necessario. Il metodo necessario non può essere molto differente.

Proprio in questi giorni ho riletto il testo di una conversazione radiofonica di un giovane teologo bavarese del lontano 1970: «Il futuro della Chiesa verrà solamente dalla forza di coloro che hanno radici profonde e vivono la pura pienezza della loro fede, non da coloro che danno solamente ricette, che solamente si sistemano, che criticano gli altri e considerano se stessi come una norma infallibile […]. Il futuro della Chiesa anche ora, come sempre, deve essere forgiato nuovamente dai santi; sarà una situazione difficile, perché dovranno eliminarsi tanto la chiusa parzialità settaria quanto l’ostinazione presuntuosa […]. Mi sembra certo che per la Chiesa arriveranno tempi molto difficili […] ma fiorirà di nuovo. Quando Dio sarà sparito completamente [dall’esperienza quotidiana delle persone] esse sperimenteranno la loro totale e orribile povertà, e allora riscopriranno la comunità dei credenti come patria che dà loro vita e speranza più in là della morte». Sono passati quasi 40 anni e quel giovane teologo si chiamava Joseph Ratzinger.