Continua su ilsussidiario.net il dibattito sulla nuova enciclica sociale di Benedetto XVI, firmata nel giorno dei santi Pietro e Paolo, il 29 giugno, e presentata martedì scorso. Giulio Sapelli mette in guardia da un rischio molto pericoloso: «togliere dall’etica l’elemento caratterizzante, che è quello della “veritas”, per parlare di etica tout court. Quello che molti giornali hanno già cominciato a fare». Dimenticando così il fondo della questione: è la presenza di Cristo nella storia che fonda il rapporto tra etica ed economia, perché cambia l’uomo.



Qual è la sua opinione ad una prima lettura dell’enciclica?

Mi è parsa molto più complessa di quel che potrebbe sembrare a prima vista. Il fondamento dell’intera riflessione è teologico e sta nel rapporto tra carità e verità e tra carità e giustizia. Proprio per questo c’è da temere che il vero centro dell’enciclica sarà sottovalutato dal dibattito.

In cosa consiste a suo avviso questo centro?

Nella tesi che il rapporto tra carità e giustizia si salda solo nella verità, cioè nell’obbligazione morale verso Dio e verso la presenza di Cristo nella storia. Ed è questo che fonda il rapporto tra etica ed economia: per un cattolico tale nesso è innanzitutto la testimonianza della verità della presenza di Cristo. Anche nell’azione economica.

E il facile fraintendimento di cui ha detto poc’anzi?

In presenza di una crisi finanziaria generata da un crollo morale – quello dell’arricchimento senza freni, della falsa stima del rischio, della falsificazione contabile – l’enciclica ricostruisce il rapporto tra morale e mercato. Ma la forte riappropriazione del nesso tra economia e morale salva al tempo stesso l’irriducibilità dell’etica cristiana al fattore economico e per un motivo molto semplice: che l’etica non è il buon comportamento, ma la verità cristiana e l’uomo cambiato da questa.

E dunque?

Nei primi commenti apparsi sui quotidiani invece si è cominciato a togliere dall’etica l’elemento caratterizzante, che è quello della “veritas”, per parlare di etica tout court. Se sei cristiano il Papa dice: nell’economia devi realizzare l’esperienza di Cristo. Questa è la carità unita alla verità e alla giustizia.

Altri aspetti che l’hanno colpita?

L’enciclica è ricchissima. Per esempio è la prima volta che si parla di una pluralità di forme dell’attività economica: non c’è solo la forma dell’impresa capitalistica, dice il magistero, ma c’è il non profit, la cooperazione. Molteplici forme che si collocano tra il mercato e lo stato, con fini sociali ed economici e soprattutto con diversi possibili assetti di proprietà. Poi la parte dedicata ai sindacati: l’enciclica li invita a superare una visione corporativa, o le parti dedicate al precariato. Basti pensare alla minaccia che questo rappresenta per la stabilità della famiglia.

Il principio di fraternità intende portare dentro l’economia la logica del dono. Ma è realistico?

È realistico perché è qualcosa che sta già avvenendo in tante piccole imprese dove c’è mutuo aiuto tra titolari e dipendenti; in tutto il mondo molte imprese stanno resistendo alla crisi facendo filiera solidale. Piuttosto sarà difficile che venga capito dai governanti del mondo, sempre più sprofondati in una crisi etica: basta guardare come operano istituzioni come l’Onu e la Fao, dominate dallo spreco e dall’inconcludenza.

Toccando il problema del governo della globalizzazione, il Papa dice che serve più sussidiarietà. Condivide?

Sì. L’unico modo per governare la globalizzazione non può essere centralistico, accentrato, ma sussidiario, prossimo alle persone e alle comunità. La persona, la società naturale che è la famiglia, le comunità, tutto può concorrere ad un governo sussidiario. Sono formule nuove che vanno precisate, ma questo è un compito che spetterà a noi laici di svolgere.

Quanto può aver influito la crisi finanziaria sulla formulazione delle tesi espresse nella Caritas in veritate?

 

La prima cosa che balza agli occhi nell’enciclica non è l’interpretazione della crisi, ma la sua solidità teologica, dalla quale tutto il resto deriva. L’enciclica a mio avviso è molto meno legata alla crisi di quanto non si pensi: è normale che noi ragioniamo sul breve termine, ma sono le basi teologiche a condizionare l’incontro dell’enciclica con i tempi e i problemi. Carità, verità, mercato e dono, pluralità delle forme di scambio sono concetti che non vengono messi nero su bianco solo per fronteggiare una crisi, ma anche per rifondare una scienza economica.

Cosa può e deve “imparare” l’economia italiana da questa enciclica?

Non c’è da essere molto ottimisti. Il nostro mondo economico può al massimo dedicarsi all’ultima riforma fiscale, ma non ha più veri intellettuali, uomini del calibro di Guido Carli per esempio. La nostra finanza è troppo ripiegata sul proprio “particulare”, a parte le banche popolari e le casse rurali, che rappresentano invece la parte positiva di cui l’enciclica parla. Certamente Tremonti la leggerà con interesse perché ci sono cose a lui care; come mi attendo molto dal mondo del non profit.

Sempre a proposito di ricezione dell’enciclica. Lei conosce molto bene l’America latina, un mondo che con troppa facilità ha scambiato la fede con la liberazione sociale…

Penso che in America latina l’enciclica avrà un ruolo enorme. Il Sudamerica è animato da una anelito di giustizia che storicamente ha imboccato anche strade sbagliate, ecco perché quei paesi attendevano da tempo un’enciclica come la Caritas in veritate. Ora la Chiesa lancia un messaggio finalmente positivo a quel continente dopo una lotta, secondo me anche troppo dura, contro la teologia della liberazione, teologicamente errata ma con un contenuto sociale cristiano molto elevato. L’enciclica può essere l’occasione storica data all’America latina per conoscersi più a fondo e interpretarsi. Ma questo vale per tutti noi.