Una legge nazionale e una risoluzione comunitaria hanno riportato l’attenzione, negli ultimi giorni sulle donne, sul lavoro, sul ruolo femminile in casa e nella società. Da un lato, l’approvazione del cosiddetto “pacchetto sicurezza”, che include le norme contro l’immigrazione clandestina; dall’altro, il nuovo monito della Corte di Giustizia europea a proposito dell’equiparazione dell’età pensionabile tra i due sessi nel settore pubblico. Due circostanze apparentemente irrelate, eppure legate da un filo sottile: quello del lavoro di cura.
Nel primo caso, è in questione il destino delle colf, badanti e baby-sitter entrate clandestinamente in Italia. Difficile dire quante siano esattamente: secondo le ultime stime delle Acli e del Ministero del Lavoro, le lavoratrici irregolari si aggirano intorno alle 5/600.000, che si aggiungono alle circa 750.000 registrate all’INPS, per un totale che supera il milione e 300.000. La preoccupazione per la loro sorte ha spinto ad ipotizzare, anche tra le file della maggioranza di governo, una sanatoria, in modo da continuare a garantire il sostegno ai bambini, agli anziani, alle attività domestiche indispensabile alle famiglie italiane. Un sostegno al quale si ricorre in nome della impari distribuzione dei compiti domestici e familiari, destinati altrimenti a gravare ancora in massima parte sulle donne e in particolare sulle madri: secondo i dati ISTAT del 2005, il 63% delle lavoratrici con figli non riceve alcun aiuto per i lavori domestici, mentre soltanto il 17% delle altre viene aiutato dal partner, e il 25% dai nonni.
Questa situazione ha offerto più di un argomento agli oppositori della richiesta europea di equiparazione delle età pensionabili. Secondo l’obiezione di sapore femminista, l’anticipo pensionistico per le donne servirebbe almeno in parte come risarcimento per il doppio lavoro svolto durante la vita attiva; secondo una prospettiva più conservatrice, ma di fatto convergente con la prima, la misura richiesta dall’Europa impedirebbe alle donne a fine carriera di dedicare le residue energie alla cura della casa e della famiglia, come richiede la società. Questo significherebbe in realtà perpetuare lo svantaggio femminile, dovuto non soltanto al diverso trattamento economico delle donne durante la vita attiva, ma anche all’ammontare inferiore della pensione maturata in un minore numero di anni lavorativi. Tra i difensori della riforma, su queste pagine il giuslavorista Pietro Ichino ha sottolineato l’insufficienza di entrambi gli argomenti, rigettando la logica risarcitoria, e insieme sottolineando la necessità di imprimere, grazie alle stesse risorse, una svolta professionalizzante allo stesso lavoro di cura, facilitandone l’emersione dal sommerso.
Il giro di vite sulle clandestine può rappresentare una spinta in questo senso, ma anche offrire un’occasione per riflettere sulla distribuzione dei compiti familiari. Il lavoro di cura non è tutto uguale, e non tutti i carichi domestici possono essere assimilati, e quindi tout court delegati. L’assistenza agli anziani e l’allevamento dei bambini non possono essere trattati, alla stessa stregua delle pulizie di casa, come incombenze da sbrigare: e per quanto difficile e faticoso possa essere rinunciare all’aiuto di badanti e baby sitter, vale la pena di chiedersi quali altre possibilità esistano. Non si tratta di invocare la panacea dell’assistenza pubblica, ma di recuperare il più possibile un simile compito all’interno della famiglia, come sua opera fondante. Della famiglia intera: non solo delle donne, non solo delle nonne, ma di tutti i suoi membri e componenti, responsabilizzati a prendersi cura, tutti, gli uni degli altri, come richiede la sostanza stessa del loro legame.
Ad esempio, Ichino ha ipotizzato che le risorse derivate dal risparmio della spesa pensionistica, oltre che per l’incremento dei servizi alla famiglia, possano essere impiegate nel prolungamento dei congedi familiari: proposte simili, nell’ottica della sussidiarietà, rappresenterebbero un’alternativa al ricorso obbligato agli aiuti “esterni”, incentivando l’assunzione dei compiti di cura all’interno della famiglia. Compiti che non si può rimandare a una terza età nei fatti sempre più lontana, o semplicemente affidare a terzi, con la motivazione che durante la vita attiva si ha troppo, e forse di meglio, da fare. Perché il rischio è di scoprire, un giorno, che il da fare non era troppo, né meglio, rispetto agli affetti più cari; ma quel giorno questi affetti potrebbero non esserci più.