La sentenza del Tar Lazio, in cui si legge che «l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica», mi pare sollevi, tra le altre, questioni giuridiche attinenti ad almeno due diversi profili.



Il primo è certamente di tipo procedurale e potrebbe sintetizzarsi nella seguente domanda: i ricorrenti avevano davvero interesse a ricorrere? Come noto l’interesse a ricorrere costituisce un presupposto indefettibile del giudizio, la cui carenza produce l’inammissibilità dello stesso. Affinché esso sussista chi ricorre deve ottenere dall’annullamento dell’atto amministrativo un vantaggio che incida sulla sua sfera personale soggettiva. Di qui la questione: nel nostro caso infatti a ricorrere sono stati studenti che non avevano frequentato l’ora di religione, né altre attività alternative, nonché parecchie Associazioni intitolate alla laicità dello Stato.



Per i primi, difficile dire quale vantaggio personale potrebbero ottenere dall’annullamento: non otterranno sicuramente il credito perché non hanno effettuato alcun tipo di attività; nemmeno otterranno l’annullamento dei crediti attribuiti ad altri studenti che si sono avvalsi dell’insegnamento dell’ora di religione o di altre attività perché hanno omesso di impugnare gli atti di scrutinio. Quanto alle Associazioni, alla luce dei vantaggi ottenibili in quanto tali, l’interesse a ricorre per l’annullamento delle ordinanze pare ancora più dubbio.

Probabilmente consapevole di tali ostacoli il giudice amministrativo ha dovuto appellarsi, non a caso, ad altre argomentazioni. Così, dopo aver ammesso che mancava un interesse collegato a una immediata utilità dei ricorrenti ha asserito che l’interesse a ricorrere in questo caso si radicherebbe nella tutela di “valori di carattere morale”, confessionale e spirituali incarnato dai ricorrenti. Il che lascia francamente perplessi, poiché prescinde da ogni valutazione di tipo puramente giuridico sull’interesse a ricorrere e si aggancia alla percezione del valore morale che il giudice amministrativo attribuisce al ricorso degli studenti e delle Associazioni in questione.



Il secondo profilo riguarda il contenuto della motivazione della sentenza. L’illegittimità delle due ordinanze viene, in estrema sintesi, dichiarata sulla base delle seguenti asserzioni:

a) la religione non è una materia scolastica, ma un fatto individuale di pura convinzione personale;
b) pertanto ad essa non possono attribuirsi crediti;
c) in caso contrario si discriminano coloro che non intendono avvalersi perché non otterranno mai crediti non essendo previsto dallo Stato italiano un analogo per le altre religioni;
d) inoltre con ciò si pone la religione cattolica in posizione “dominante” rispetto alle altre, violando il principio di laicità delle Stato e di uguaglianza.

Rispetto a tali motivazioni la prima perplessità attiene alla congruenza del livello in cui sono espresse, e cioè il giudizio amministrativo. Questo, infatti, almeno a contesto normativo vigente, è un giudizio di congruenza tra atti amministrativi e leggi dello Stato e non un surrogato di questioni di livello costituzionale, quali, appunto sono quelle espresse in motivazione. Da questo punto di vista la sentenza non è carente di motivazione, ma è, invece, intrisa di motivazioni poco congruenti con un giudizio amministrativo.

Se poi entriamo nel merito più specifico delle affermazioni, alcune lasciano perplessi come quella secondo cui l’insegnamento della religione non potrebbe considerarsi una materia scolastica. Ora, che si discuta circa la sua legittima presenza nei programmi scolastici è un discorso, ma che se ne metta in discussione la consistenza “ontologica” di disciplina è davvero curioso. Mi limito a ricordare che la religione fa parte integrante della conoscenza dei dati di qualunque nazione, come dimostrano i libri di geografia (e non di religione) quando insieme a dati relativi alla quantità della popolazione, conformazione del territorio ecc… citano anche la religione (o religioni) professata in un determinato Stato.

Altre considerazioni potrebbero farsi in relazione all’affermazione secondo cui la religione cattolica sarebbe in tal guisa “dominante” rispetto alle altre. Mi limito anche qui a un solo dato: l’art. 7 della Costituzione (perché la Costituzione va richiamata tutta e osservata tutta) colloca la Chiesa cattolica in una posizione “diversa” dalle altre confessioni, come del resto dimostra la copertura costituzionale dei Patti Lateranensi.

Ma proprio questo è il nodo della sentenza: ciò che il giudice amministrativo in realtà contesta è proprio questa “diversità”, che, tuttavia, è costituzionalmente prevista, quale una delle componenti identitarie (almeno storicamente parlando) del nostro Paese. Il principio di uguaglianza, infatti, non può essere invocato tra le confessioni (visto il diverso tono degli articoli 7 e 8 della Costituzione) ma tra le persone, che è questione ben diversa.

Che nel caso concreto vi sia stata una discriminazione nei confronti degli studenti che non si sono avvalsi dell’ora di religione e dunque non hanno ottenuto il credito (che sia chiaro è uno possibile all’anno, dunque tre in tre anni e non 25!) pare come ragionamento francamente eccessivo, poiché c’è alternatività di soluzione (ora alternativa) e in cospetto di un non facere (chi non vuole né optare per l’insegnamento, né fare altro di alternativo) non si può pretendere l’attribuzione di crediti.

In conclusione, anche questa ulteriore vicenda giurisprudenziale, dimostra probabilmente che ci sono nodi di cui è urgente che si riappropri la “politica”, che la politica, nella dialettica democratica e nel rispetto del pluralismo (che tra parentesi vale anche al contrario, cioè anche per i cattolici) delinei il “frame” all’interno del quale la giurisprudenza può muoversi.