Strano Paese il nostro. Il Parlamento approva una mozione per lamoratoria internazionale contro l’obbligatorietà dell’aborto e il suo utilizzo come strumento per il controllo demografico. I dati ufficiali parlano di un decremento del numero di aborti nel 2008 pari al 4,1% rispetto al dato definitivo del 2007 e un decremento del 48,3% rispetto al 1982 (anno in cui si è registrato il più alto ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza).



Nonostante tutto ciò, quasi simultaneamente, l’Agenzia Italiana per il Farmaco (AIFA) ha autorizzato l’introduzione della pillola abortiva RU486, senza che, francamente, se ne sentisse il bisogno.

Paradosso nel paradosso, l’AIFA annovera fra i propri compiti istituzionali quello di«operare a tutela del diritto alla salute garantito dall’articolo 32 della Costituzione» e considera «l’interesse primario del malato» come proprio «valore di fondo». Delle due l’una: o si è perso il senso etimologico del termine farmaco – che gli studiosi continuano a far derivare dal copto “fahri” (rimedio) e dall’egiziano “mak” (cura) -, o la gravidanza è ormai da ritenere una seria patologia per la salute della donna.



In ogni caso, ora, anche il ricorso all’aborto chimico diventa un’opzione consentita dal nostro ordinamento giuridico. Sta di fatto, però, che proprio il nostro ordinamento giuridico disciplina la delicata materia con la Legge22 maggio 1978, n. 194, la quale si fonda su alcuni imprescindibili principi. Due di questi hanno una particolare valenza sul tema in discussione.

Il primo è quello riconosciuto dall’art.1: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite». Il secondo principio è quello riconosciuto dall’art.8, secondo cui «l’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale (…)».



Breve premessa di carattere scientifico. La RU486 è un composto a base di mifepristone, in grado di far cessare la vita di un embrione già annidato in utero (poiché interrompe l’azione del progesterone), alla cui somministrazione deve essere aggiunto, a distanza di due giorni, un ulteriore farmaco – una prostaglandina – che induce le contrazioni uterine e causa l’espulsione dell’embrione.

Pur essendo questo cocktail chimico micidiale tutt’altro che una banale aspirina, in realtà esso rischia di diventare – in violazione al principio di cui all’articolo 1 della Legge 194 – uno dei tanti mezzi di contraccezione. Con l’aggravante del rischio di compromettere gravemente la salute della donna. La letteratura medica ci dice, infatti, che soprattutto dopo l’assunzione della seconda pillola iniziano le contrazioni, le quali richiedono, quasi sempre, l’azione di un antidolorifico, si registrano abbondanti perdite di sangue – anche dopo solo il primo farmaco – che durano diversi giorni, ed il rischio di un’elevata frequenza di infezioni è tale da richiedere un’adeguata terapia antibiotica.

Per non parlare dell’aspetto psicologico legato al fatto che, dovendo la donna controllare personalmente il flusso sanguigno, a lei spetta l’infelice compito di accertare l’espulsione dell’embrione. Come tutto ciò possa avvenire nel bagno di un’abitazione privata è davvero difficile immaginarlo. Ma non è, invece, difficile immaginare, purtroppo, la probabile organizzazione di un lucroso mercato clandestino delle pillole, certo non all’attuale prezzo di 14 euro.

In più occorre aggiungere che l’assunzione della kill pill deve avvenire entro la settima settimana di gravidanza, 49 giorni, meno di due mesi, perché, come ha riconosciuto lo stesso Direttore Generale dell’AIFA, «la maggior parte dei cosiddetti “eventi avversi”, come l’incompleta espulsione ed i sanguinamenti, si verificano quando la pillola è somministrata dopo la settima settimana».

Esiste, infine, la necessità di effettuare sempre un’ecografica prima di ricorrere all’aborto chimico, in quanto possono esistere controindicazioni specifiche, come ad esempio una gravidanza extrauterina, per la quale la RU486 non solo non è efficace ma addirittura pericolosa.

Allora, è proprio da ingenui chiedersi cosa accadrebbe nel caso, assai probabile, del sorgere di un fiorente mercato nero della pillola abortiva? Chi assisterà le donne nella diagnosi preventiva, o nel caso di successive complicazioni? Chi controllerà che l’assunzione non avvenga dopo la settima settimana di gravidanza?

Il secondo principio giuridico della Legge 194 viene messo in discussione dal fatto che l’aborto chimico non consente di prevedere i tempi esatti dell’espulsione dell’embrione e del conseguente svuotamento dell’utero. Le statistiche ci mostrano che su 100 donne che ricorrono all’aborto chimico, cinque concludono il processo entro 2 giorni, settantacinque dopo 3 giorni, quindici fino a 15 giorni, e le restanti cinque arrivano anche ad una data successiva alle due settimane. Inoltre, tra il 5 e l’8% dei casi, le donne devono comunque sottoporsi al raschiamento.

È del tutto evidente che il nostro sistema sanitario non è in grado di garantire un simile supporto in termini di degenza e di assistenza, anche considerando il fatto che la percentuale di obiezione di coscienza degli operatori sanitari si aggira attorno al 70,5%, con punte dell’85,6% nel solo Lazio. Cosa succederà quindi con il principio dell’art. 8 della Legge 194, quando per ragioni oggettive e pratiche si dovrà prendere atto dell’impraticabilità della sua applicazione? Molto probabilmente quello che già accade in molti altri Paesi europei come ad esempio la Francia: self-abortion a domicilio. Il rischio è quello di far ripiombare l’aborto nella clandestinità e nella solitudine. Un colpo mortale allo spirito della Legge 194.

Davvero le donne italiane avvertivano la necessità dell’immissione in commercio della RU486? Sembra, sinceramente, che tale esigenza fosse in realtà maggiormente avvertita dalle potenti lobby abortiste. Magari con la compiaciuta connivenza dei dirigenti commerciali dell’azienda parigina Exelgyn, produttrice del farmaco. Spesso si avverte l’odore del denaro dietro molte battaglie ideologiche che si asseriscono ingaggiate per il “progresso” dell’umanità.