Il dramma, la disperazione, lo sconforto, la stanchezza. Stati d’animo che si incontrano con sempre più frequenza girando per L’Aquila. Non tutti hanno la fortuna di aver già la certezza di una casetta in legno o un appartamento. Solo oggi verranno rese note le graduatorie per l’assegnazione degli alloggi nell’ambito del progetto Case. Nel frattempo, entro la fine di questa settimana, altre tendopoli chiuderanno. I loro occupanti saranno dirottati in alberghi della provincia dell’Aquila. C’è chi si ritroverà a decine di chilometri dal luogo di lavoro.



Ieri una donna si è barricata nella sua abitazione, gravemente lesionata. «Meglio vivere a casa mia, che rischia di crollare, piuttosto che andare a settanta chilometri dal luogo di lavoro». Pina Lauria, 45 anni, ha creato scompiglio ieri in città. Dopo essere entrata in casa ha avvisato i vigili del fuoco. Davanti alla sua abitazione in pochi minuti autoscale dei pompieri, macchine della polizia, un’ambulanza. I vigili urbani hanno chiuso una zona importante della città bloccando di fatto il traffico. «Lavoro all’Agenzia delle entrate, non ho la patente, ho due genitori di 85 anni, invalidi al 100% entrambi. Mi dite come posso accettare di trasferirmi a Castellafiume, nella Marsica, a 70 chilometri? Non sarei rimasta a L’Aquila dopo il 6 aprile, non avrei accettato di vivere da subito in tenda per rimanere in città, vicino al lavoro, vicino ai miei genitori. Avrei scelto un albergo, in riva al mare, con il sole dell’estate».



Uno sfogo fatto da balcone di casa sua, sopra quei pilastri che sono stati spezzati dalla violenza del terremoto. Casa sua è da abbattere, non può essere ristrutturata. Per lei, con ogni probabilità, neanche la possibilità di un alloggio. «Questa è una deportazione – aggiunge Pina – poi ci sono passaggi poco chiari. Ci sono persone che non sono neanche residenti all’Aquila che hanno avuto assegnato un albergo in città. Io da questa città non me ne vado». Voleva certezze per uscire da casa, voleva che la protezione civile cambiasse le carte in tavola, le desse una nuova sistemazione. Non ce l’ha fatta, è uscita in serata solo con la promessa di un parlamentare del Pd.



Un episodio singolo, che rischia di propagarsi a dismisura. Già questo fine settimana ci saranno persone che minacciano di non abbandonare le tendopoli. In alcune, formalmente già chiuse, alcuni irriducibili sono voluti rimanere. Non hanno più luce, acqua, bagni chimici. Una sorta di braccio di ferro che rischia di inasprire la vita di tutti i giorni, i rapporti con gli enti locali. «Io dall’Aquila non me ne vado – racconta Antonietta – preferisco un piumino in tenda che andare a finire a cento chilometri. Come me tante altre persone. Ci sono aspetti che non funzionano. Meglio qualche container e maggiori disagi che un albergo lontano da tutto e da tutti».

Le difficoltà, l’avvicinarsi dell’inverno. Tanto è stato fatto e si sta facendo. Ma il dramma del terremoto si prepara a una nuova pagina. Sicuramente preoccupante, si spera però che protagonisti non siano i disordini.

(Fabio Capolla – giornalista de Il Tempo)

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