Ennesimo episodio di deriva eugenetica per via giudiziaria. Il Tribunale di Salerno ha autorizzato una coppia fertile a ricorrere alla diagnosi prenatale per verificare possibili patologie dell’embrione, contravvenendo così, in un colpo solo, a due norme della legge 40/2004. La prima che vieta la possibilità di fecondazione assistita a coppie fertili (art. 1), e la seconda che proibisce l’utilizzo dell’analisi preimpianto a fini selettivi (art. 13).
Del tutto irrilevante, per il magistrato salernitano, il fatto che la legge 40/2004, disapplicata col provvedimento in questione, sia stata approvata a larga maggioranza dal Parlamento della Repubblica, sia stata confermata da un referendum popolare e sia passata al vaglio della Corte costituzionale che, con la recente sentenza 151/2009, ha confermato la piena costituzionalità del divieto di ricorso alla diagnosi reimpianto a fini eugenetici.
La disinvolta violazione del dettato normativo da parte del Tribunale di Salerno è avvenuta attraverso le solite vaghe espressioni di “diritto vivente” e di “lettura costituzionalmente orientata” della legge. Modi eleganti per far prevalere la personale prospettiva ideologica di un magistrato quando questa si appalesi chiaramente contra legem.
Qui il discorso si farebbe lungo. Implicherebbe considerazioni sulla tripartizione dei poteri, sulla prevaricazione di parte della magistratura rispetto al potere legislativo, sulla tentazione del “government by judiciary”, sul mostro giuridico del “giudice-legislatore”. Bisognerebbe ricordare Montesquieu, Tocqueville, Constant.
Il punto sul quale, invece, intendo focalizzare l’attenzione è un altro. Riguarda un passo del provvedimento salernitano, e precisamente quello in cui si afferma che “il diritto a procreare, e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti, verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili”.
È proprio su quel “diritto a procreare” che ci si deve interrogare. Potremmo partire dal titolo del libro pubblicato nel 2004 da Mary Warnock: Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli? Da un punto di vista giuridico, checché ne pensi il Tribunale di Salerno, per quanto riguarda il nostro ordinamento la risposta è semplice. Sarebbe sufficiente citare il presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, Mario Zevoli: «Essere genitori sembra sia considerato un diritto, ma non è affatto così». Prima che un problema giuridico, quindi (fortunatamente non siamo ancora nella Svezia eugenetica degli anni ’30), è un problema morale.
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Soltanto una prospettiva di individualismo esasperato può tradurre un desiderio in diritto. E una simile prospettiva è capace di generare ingiustizia quando l’oggetto del desiderio implica violazione dei diritti di altri soggetti. Un figlio non può essere considerato come mera “proprietà” dei genitori, e questo vale fin dal concepimento. Né può essere considerato un “oggetto” necessario alla realizzazione di una coppia, da ottenere non con un atto d’amore ma attraverso l’esito positivo di un’operazione tecnica.
Il cosiddetto “diritto di procreazione”, in realtà, rischia di tradursi nella proiezione egoistica di un capriccio. Solo così, infatti, può giustificarsi, ad esempio, il ricorso alla fecondazione assistita per una coppia di donne omosessuali, o l’inseminazione artificiale di una donna con il seme congelato del marito defunto, o il figlio in provetta per le ultrasessantenni. Sembrerebbero, queste, aberrazioni teoriche ma, in realtà, lo scorso luglio qualcuno ha cominciato a riflettere quando si è appresa la notizia che in Gran Bretagna la signora Maria Bousada De Lara è morta di cancro all’età di 69 anni lasciando soli due gemelli di due anni, ottenuti attraverso il ricorso alla fecondazione assistita per realizzare il suo egoistico desiderio di maternità.
Ripensando a quell’episodio, mi sono venute in mente le parole del cardinale Caffarra quando ha avuto il coraggio di affermare, senza mezzi termini, che «nessuno possiede il diritto ad avere un figlio, a qualunque costo e in qualunque modo», perché «si ha diritto ad avere “qualcosa”, mai ad avere “qualcuno”». E, citando Bruno Fasani, lo stesso cardinale ha spiegato: «Un figlio non può essere una sorta di peluche che riempie i vuoti affettivi, che scavalca fittiziamente i limiti imposti dalla natura, che spezza solitudini senza prospettive di soluzione».
La riduzione della genitorialità a mero fattore biologico, a questione di Dna, significa immiserire il rapporto filiale, riportandolo alla concezione ottocentesca dello jus sanguinis. Una sorta di riduzionismo genetico come nuova versione del riduzionismo biologico di Cesare Lombroso. Davvero un bel passo avanti per i progressisti della società moderna ed evoluta.
L’uomo, in realtà, è più della somma dei suoi geni. Ce lo ha ricordato Francis Collins, il padre del genoma umano, quando il 26 giugno 2000, in una conferenza stampa tenuta alla Casa Bianca pronunciò al mondo intero, appunto, la celebre frase: «We are clearly much, much more than the sum total of our genes».
Essere genitori non è, quindi, una questione di geni. La Chiesa, ad esempio, da secoli sussurra all’orecchio dei suoi figli che l’uomo è capace di una fecondità che non è riducibile solo a quella carnale. «È per questo – ricordava don Luigi Giussani, il fondatore di Cl – che un uomo e una donna che non hanno figli e che ne adottano sono veramente padri e madri nella misura in cui educano un figlio. Molto più della grande maggioranza che getta fuori dal ventre il figlio e non si cura del suo destino». Davvero non è una questione di geni.