Dunque, mentre i giudici di Strasburgo hanno decretato la rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche, il Consiglio Superiore della Magistratura in Italia ha rimosso dall’ordine giudiziario il giudice Luigi Tosti che si rifiuta di tenere udienze in aule dove il crocifisso è esposto. In realtà, il CSM non si è pronunciato sulla questione generale, bensì circa il fatto che un funzionario statale non ha il diritto di rifiutarsi di lavorare su quelle basi. Ma la questione resta aperta.
Può sembrare curioso che di essa si occupi un ebreo, ma ho voluto rispondere positivamente alla richiesta del Sussidiario per sollevare una problematica generale connessa e troppo spesso elusa. In certe forme l’esposizione di un simbolo religioso può configurare una prevaricazione della fede e delle convinzioni altrui (potrei farne esempi), ma il crocifisso si presenta nei locali pubblici italiani come simbolo dei principi morali che derivano dalla fede religiosa della maggioranza della popolazione e che sono radicati nella storia e nella civiltà del paese.
Accetto quel simbolo come riferimento al terreno comune “noachico” condiviso con i cristiani. Nei termini in cui la contesa si sta configurando, penso che la rimozione del crocifisso rappresenterebbe una vittoria di chi pensa che quelle tradizioni religiose e storiche non abbiamo più alcun diritto, e un segnale preoccupante.
Tuttavia, se l’argomento portante per difendere l’esposizione del crocifisso è che esso è un riferimento per la maggioranza della popolazione, occorre che sia davvero così. Ora, io penso che sia ancora così, ma non mi affiderei troppo alle statistiche che, ad esempio, parlano di un 95% (o più) di adesioni all’ora di religione scolastica.
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La vera domanda è: quante di queste adesioni sono frutto di consuetudine e quante sono davvero sentite? L’esperienza mi fa dire che esiste un distacco crescente e un’insofferenza che fa parte del disinteresse montante per l’esperienza religiosa. La “questione crocifisso” emerge come sintomo di questo disinteresse. È alla malattia, non al sintomo, che bisogna guardare.
C’è chi crede che si possa ostacolare questo andazzo vezzeggiando proprio la mentalità e le tendenze contrarie alla morale religiosa che deriva dalla tradizione ebraico-cristiana. È assurdo ridurre l’ebraismo a una sorta di polizia municipale del politicamente corretto, di “testimonial” dell’antirazzismo e della tolleranza, come tendono a fare certi ambienti ebraici “progressisti”.
L’esperienza religiosa non è riducibile a prese di posizioni “aperte” sulla questione degli immigrati, sul matrimonio gay o sull’aborto. La religione è innanzitutto fede in Dio e la morale ebraica (e cristiana) ha come riferimento i Dieci Comandamenti, non il programma politico di un movimento libertario. Analogamente per il mondo cristiano e cattolico in particolare.
Non ho spazio per dare i tantissimi esempi che mi vengono alla mente. Mi limito a dire, in termini molto generali, che mi sfugge come, in nome di un malinteso senso di tolleranza, si possa concedere tanto a dottrine, filosofie e sviluppi scientifici che sono incompatibili con una visione spirituale e sono invece compatibili soltanto con il più duro materialismo.
Non capisco come si possa tacere sulle persecuzioni di cui sono oggetto i cristiani in tanta parte del mondo, e considerare quasi soppraffattorio chiedere un principio di reciprocità nella pratica religiosa. Non capisco quale sia il senso di parte delle lezioni di religione nelle scuole, il cui scopo principale sembra essere quello di trasmettere un’immagine simpatica, accattivante e tollerante di ogni “devianza”, anziché di trasmettere il senso profondo del messaggio morale cristiano.
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A che serve puntare i piedi su un’ora di religione così? Non è vero che sia impossibile forare la barriera dello scetticismo, ma l’unico modo di non riuscirvi è di cercare di accattivarsi gli scettici mettendosi in sintonia con il loro tono disincantato e “blasé”. Infine, mi lascia di sasso la leggerezza con cui tanti religiosi si adattano a teorie pedagogiche coerenti soltanto con lo scientismo materialista più radicale.
In ambito ebraico ho assistito con stupore alla passione per il pedagogismo di Makarenko, in ambito cattolico è stupefacente la superficialità con cui ci si appiattisce su certo pedagogismo scientista alla Dewey o alla Morin e persino sulle teorie pedagogiche basate sulle neuroscienze e l’analisi delle aree cerebrali. Ho letto Don Giussani e sono convinto fermamente che le sue visioni sono totalmente incompatibili con la pedagogia dell’autoapprendimento e del “cooperative learning”.
Da questo punto di vista, rappresenta un pregevolissimo sussulto di consapevolezza il volume “La sfida educativa” prodotto dal Progetto Culturale della CEI, con la sua dura critica dell’ideologia aziendalistico-tecnocratica dell’educazione vista come «saper fare», come istruzioni a «come fare», come filastrocca delle conoscenze/competenze/abilità, dell’ideologia dell’ «apprendere ad apprendere» che dimentica che educare è, in primo luogo, «contenuti, valori e visioni del mondo».
Si chiederà cosa c’entri tutto questo con l’esposizione del crocifisso. C’entra, e come. L’accettazione del valore universale di un simbolo non è garantita dalle statistiche né una volta per tutte. Essa scaturisce dall’adesione a valori capaci di riempire la vita di senso.
Altrimenti, le modalità efficienti di sopravvivere sono meglio titolati a realizzarle altri: quel simbolo potrà essere rimpiazzato dalla foto di qualche neuroscienziato o di qualche pedagogista dell’autoformazione. Oppure da altri profeti. Perché la necessità di valori universali è tale che, quando non trova il nutrimento di un pensiero gentile e tollerante ma forte, alla ricerca di certezze può dilagare disastrosamente sul terreno del fondamentalismo.