La presentazione del decimo Rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale prodotto come ogni anno dalla Caritas Italiana a dalla Fondazione Zancan, avvenuta ieri a Roma, ha riservato un vero colpo di scena, con contorno di garbato botta e risposta con l’ISTAT.
La ricerca della Caritas ha infatti per la prima volta disconfermato i dati ufficiali forniti dall’Istituto nazionale di statistica, ampliando lo spettro dei poveri italiani: non sarebbero i 7.810.000 dichiarati per il 2009 da ISTAT, bensì 8.370.000. Il motivo di questa differenze è spiegato nel Rapporto: “Visto che tutti stanno peggio, la linea della povertà relativa si è abbassata, passando da 999,67 euro (di consumi mensili, ndr) del 2008 a 983,01 euro del 2009 per un nucleo di due persone. Se però aggiornassimo la linea di povertà del 2008 sulla base della variazione dei prezzi tra il 2008 e il 2009, il valore di riferimento non calerebbe, ma al contrario salirebbe a 1.007,67 euro. Con questa posizione di ricalcolo, alzando la linea di povertà relativa di soli 25 euro mensili, circa 223 mila famiglie diventano povere relative: sono circa 560 mila persone da sommare a quelle già considerate dall’Istat (cioè 7.810.000 poveri) con un risultato ben più amaro rispetto ai dati ufficiali: sarebbero 8.370.000 i poveri nel 2009 (+3,7%)”. Si tratta insomma di un modo diverso di costruire i dati, più corretto secondo l’interpretazione della Caritas italiana. Una differenza non lieve, a dire il vero, che ha creato non pochi imbarazzi nelle relazioni tra le due istituzioni con tanto di comunicati stampa (assolutamente distensivi) incrociati.
Che cosa ci dice questo caso? Quel che già si sapeva, e cioè che le modalità di calcolo statistico non sono mai univoche. L’utilizzo di modalità di calcolo differenti permette dunque variazioni assai significative e dunque interpretazioni delle informazioni molto diverse tra loro. La qual cosa può diventare esplosiva nel momento in cui un concetto scientifico viene utilizzato nel linguaggio comune.
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Il dialogo a distanza tra Caritas italiana e ISTAT conferma ciò che che negli ambienti scientifici da più parti si va sostenendo da qualche tempo: e cioè che il concetto stesso di povertà relativa non aiuta a comprendere quali siano le reali dimensioni del problema povertà. Si tratta infatti di un indicatore capace di cogliere elementi di diseguaglianza (quante sono le famiglie che si discostano da un certo livello di spesa mensile), ma che fa fatica a spiegare quante siano le famiglie davvero povere, ovvero quelle famiglie che non hanno a sufficienza per soddisfare le proprie esigenze primarie. Proprio per questo negli ultimi anni si è tornati a ragionare nei termini della povertà assoluta, le cui modalità di calcolo conteggiano solo i consumi essenziali (alimentari, vestiario, salute, igiene, casa, educazione) tenendo in debito conto dei profondi differenziali di costo della vita presenti nel Paese (cosa che la povertà relativa non fa). Lo stesso livello di consumi essenziali permette livelli di esistenza molto diversi non solo tra Nord e Sud, ma anche solo tra Milano e un qualunque comune di piccole dimensioni della Lombardia.
Non è forse un caso che mentre la povertà relativa negli ultimi anni appare stabile attorno all’11% (e addirittura in lieve diminuzione rispetto al 2006), la povertà assoluta è in crescita, essendo passata dal 4,1% del 2006 al 4,7% del 2009. Un andamento crescente in particolare nelle regioni del Nord, che hanno maggiormente subito le conseguenze della crisi economica internazionale.
Insomma, è bene maneggiare con grande prudenza queste informazioni. Perché il dato nudo e crudo non sempre è capace di spiegare le realtà.