C’è un modo concettualmente semplice per fare tesoro dello scempio giudiziario simboleggiato dal flop dell’inchiesta cosiddetta “Why Not”, condotta a Catanzaro dall’ex pm Luigi De Magistris, oggi eurodeputato dell’Italia dei Valori. E questo modo consiste nel por mano alle leggi esistenti, come incitava a fare Danti Alighieri (“Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”) a testimonianza del fatto che il vizio italico di dettare norme e poi non applicarle è vecchio di secoli.



La responsabilità civile dei giudici è stata invocata dall’80% degli italiani (altro che norma “ad personam”) con il referendum dell’8 novembre 1987, promosso dal partito Radicale sull’onda emotiva dell’incredibile linciaggio giudiziario contro Enzo Tortora, accusato senza alcun fondamento di essere colluso con la camorra. Eppure l’input di quel referendum non è mai stato seguito da una normativa solida e chiara, né negli anni immediatamente successivi – ancora nella “Prima Repubblica” – né tantomeno dal ’92 in poi, cioè nell’epoca di Mani Pulite.



Con l’avvento del primo governo Berlusconi, a marzo del ’94, lo scontro sulla “mala-giustizia” che quel referendum aveva incardinato nel terreno giusto s’è trasferito sul piano delle polemiche di schieramento, per cui ogni norma minimamente utile a intaccare lo status quo veniva vissuta come una ferita al terzo potere dello Stato a tutto vantaggio del “Grande Inquisito”, appunto Berlusconi, senza curarsi del fatto che la malagiustizia colpisce in realtà indiscriminatamente chiunque le capiti a tiro, anche a prescindere dalla sua coloritura politica.

Giustamente Graziano Debellini, l’imprenditore veneto rinviato a giudizio per un’accusa infondata di truffa comunitaria sui contributi alla formazione, ha parlato di “spirito di Why Not” quasi a etichettare così quel modo di procedere arrogante, apodittico, ideologico e autoreferenziale che troppi magistrati adottano, senza mai pagarne le minime conseguenze.



 

Perché è questo il punto: nel nostro ordinamento esistono fior di professionisti che vengono bersagliati dalle cause professionali, sia civili che penali – si pensi ai medici – nel caso in cui il loro operato generi dei danni ai cittadini. Per i magistrati questo è impossibile: e le rare volte che un magistrato viene trascinato in giudizio per un comportamento tenuto all’interno di un procedimento giudiziario, prevale, difeso dalla casta che si compatta attorno a lui.

La classe politica, anziché coalizzarsi per migliorare una situazione che danneggia tutti, si è invece concentrata a cercare un vantaggio di parte dall’esito dello scontro sulla magistratura. Che, come si è visto nel caso dell’inchiesta “Why Not”, ha continuato a colpire indiscriminatamente a destra come a sinistra, anche se senza dubbio la centralità di Berlusconi nella storia italiana degli ultimi sedici anni ha concentrato il grosso dei casi attorno alla sua persona, al suo gruppo e al suo operato.

Il punto in realtà sarebbe duplice. Da una parte, individuare procedure tali da garantire a coloro che subiscano un danno dall’azione negligente o capziosa o semplicemente incompetente della magistratura il diritto di essere risarciti e riabilitati: risarciti dei danni economici legati alla lunga inattività cui spesso le istruttorie o le misure preventive cautelari costringono gli imputati, riabilitati ad esempio con pubblicità pagata dallo Stato sulle avvenute assoluzioni: così come i tribunali pagano i giornali che danno notizia delle aste giudiziarie, allo stesso modo sarebbe giusto che pagassero inserzioni in cui le assoluzioni definitive di cittadini ingiustamente inquisiti fossero adeguatamente divulgate. Dall’altra parte, introdurre nell’ordinamento interno della professione giudiziaria dei meccanismi di premio o sanzione dei risultati dell’azione legale di ciascun magistrato.

Non è possibile infatti che la carriera di un pm si dipani indisturbata e indifferente rispetto all’esito delle istruttorie che egli produce. Eppure oggi è così. Se un pm chiede il rinvio a giudizio di indagati che sistematicamente si dimostrano innocenti, nei vari gradi di giudizio, dovrebbe per questo pagare un pegno professionale, per esempio rimanendo eternamente ai gradi inferiori della carriera. Se un giudice di primo grado emette sentenze che vengono sistematicamente o prevalentemente riformate nei gradi successivi di giudizio, dovrebbe a sua volta pagare un pegno per questo.

Gli esiti qualitativi dell’operato dei giudici dovrebbero insomma filtrarne le carriere meritocraticamente, in modo da condurre a  una magistratura selezionata per risultati oggettivi e non per anzianità o tantomeno, come pure accade, per appartenenze politiche.

Non sarebbe insomma necessario introdurre l’azione di poteri esterni sopra la magistratura, ma far funzionare meccanismi interni di selezione meritocratica dei giudici, indotti da quanto la magistratura stessa compie, nel suo quotidiano operare, e non attraverso il Consiglio superiore che potrebbe restare mero organo disciplinare,

Perché non si fa? Perché oggi, di fatto, l’unica selezione tra magistrati è quella che risulta dall’uso spesso scellerato e sempre comunque scorretto che alcuni di essi fanno dei mass-media quali altoparlanti delle loro gesta? Per cui il magistrato bravo non è quello che conduce bene le indagini o guida bene un processo ma quello che sa far palare bene di lui giornali e tv?

La colpa è della politica e, paradossalmente, soprattutto di Silvio Berlusconi che, ossessionato dai propri personali contenziosi giudiziari ha di fatto concentrato tutta la forza politica del suo schieramento verso il conseguimento di leggi ad personam in grado di salvare lui, trascurando la promulgazione di quelle riforme che la giustizia richiede e che, appunto, sono finora rimaste al palo. Col risultato paradossale di non essere riuscito neanche a proteggere se stesso: come la cronaca politica di questi ultimissimi giorni dimostra.

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