Illustre Presidente,
mi permetto di formulare alcune considerazioni, in ordine sparso ma non certo per estemporaneità, sul tema della “giustizia che non fa notizia” e che l’informazione tratta solo incidentalmente, ripiegata sulle questioni del Lodo Alfano, senza accorgersi che il sistema giudiziario non è solo quello penale e le situazioni cruciali sono ben altre e diverse rispetto a quella dell’immunità dei vertici dello Stato.
Alludo, in particolare, all’agonia della giustizia civile e ad un filone di lavoro, iniziato dal 2008 sulle riforme del processo civile, che non riceve il clamore delle prime pagine, ma che continua nel tentativo di porre rimedio al primo dei problemi: l’infinita durata del processo civile.
In ogni sede – politica, tecnico-giuridica ed economica – viene esibita la pietra dello scandalo: i tempi del processo civile. Una giustizia lenta è per definizione ingiusta. V’è ogni sorta di dato, statistica e considerazione a supporto. Si addita la lentezza della giustizia civile fra le prime ragioni della carenza di competitività del sistema economico italico, ma pochi esibiscono terapie praticabili.
Nel segno del “fare possibile” è la legge 18 giugno 2009, n. 69 [emanata dopo circa 14 mesi dall’insediamento del nuovo governo] che ha gettato le prime, seppure incomplete, basi per una riforma del codice di procedura civile. La riforma del giudizio di cassazione, l’abbreviazione di una serie di termini processuali (ad esempio per la riassunzione o l’estinzione del processo per inattività delle parti), l’introduzione della testimonianza scritta, la traslatio judicii tra giurisdizioni, il rito sommario di cognizione, l’introduzione delle misure compulsorie all’adempimento di cui all’art. 614-bis c.p.c., l’abrogazione del rito societario e del rito relativo a sinistri con lesioni, sono talune delle novità già entrate in vigore. Certo si tratta di riforme parziali, non sufficienti, che anelano ad una compiutezza sistematica, ma comunque sono concreti passi in avanti per restituire al processo civile la funzione che gli è propria: la tutela dei diritti.
Il Ministero della Giustizia, quasi contemporaneamente, ha varato la disciplina della mediazione: testo problematico, bisognoso di ritocchi e modifiche, ma comunque una disciplina di rottura che tenta di arrestare l’escalation del debito giudiziario civile. Nell’attuale contesto socio-politico, la cui cifra identificativa è il conflitto a tutti i livelli occorre pragmatismo. Se la macchina giudiziaria statale è inceppata non si può solo attendere il colpo di “bacchetta magica”, le riforme di sistema richiedono tempo e consenso e si attuano per gradi.
Ma nel frattanto non si può solo arrancare dietro le difficoltà economiche e di copertura di organico negli uffici giudiziari, la mediazione dei conflitti in sede extragiudiziaria è una scelta necessitata che aspira a restituire alla società civile il governo delle opzioni individuali. Forse non piace? Oppure poteva e doveva essere fatta meglio? A prescindere dalle opinioni, pur sempre legittime, che avversano la mediazione, non si tratta solo di una questione tecnica di “modus in rebus”, ma di una scelta giuspolitica.
Ed allora, oltre a criticare l’incompletezza e farraginosità delle norme del processo civile, perché non puntare l’indice sulla gestione delle regole, visto che esperienze virtuose di alcuni tribunali dimostrano la possibilità concreta di miglioramento. In tale ottica, mi sembra più produttivo chiedersi se sia ancora tollerabile che interi uffici giudiziari siano sguarniti, quando molti giudici militano tra le fila dei consulenti ministeriali od assumono incarichi diversi da quelli di sedere in un’aula di giustizia? Ancora può tollerarsi la “fuga dalle sedi giudiziarie sgradite” da parte di servitori dello stato [con status di pubblici dipendenti particolarmente privilegiati] nonostante siano stati proposti addirittura incentivi economici [ma allo stato nessuno può comandarli in quelle sedi…]? Possiamo permetterci una gestione del rapporto giudice-avvocato subalterno, fondato sulla imposizione di ruoli di udienza chilometrici perché il magistrato tiene udienza (soprattutto nei grandi uffici giudiziari) solo di mattina e solo per due giorni a settimana (la ragione ufficiale è che non si può fare solo udienza, ma occorre anche studiare il fascicolo e scrivere le sentenze e se si sta troppo in aula non si produce)?.
Una cameo giudiziario che quotidianamente si ridipinge è quello dell’avvocato che fascicolo alla mano si mette a turno, mette la pratica nel “mucchio”, attende pazientemente (tutte le cause sono chiamate alla stessa ora di rito….) e, arrivato il proprio turno, si rivolge untuosamente al giudice: “Consigliere posso spiegare….” ricevendo in tutta risposta “…Avvocato sia breve che il processo è scritto, compili il verbale fuori dell’aula e rientri in silenzio, predisponga il dispositivo d’ordinanza che lo firmo…”.
Non si tratta di rinfocolare il conflitto, ne abbiamo già d’ogni sorta, e ritengo che la stragrande maggioranza dei giudici converrà almeno sulla descrizione, poiché anche loro sono attanagliati dalla frustrazione di condurre un lavoro faticoso e conosco tanti magistrati che, avvertendo il disagio di esercitare un ministero ormai scollegato dalla sua connaturale carica ideale, subiscono lo svilimento del loro ruolo, fagocitati dalla mole delle cause.
E’ uno stato di fatto insopportabile, che degrada la difesa ad elemosina e che si conclude con un altro rinvio. Non mi attardo, poi, nel narrare dei giudizi in Corte d’Appello, autentiche comparsate in cui si dà la presenza all’udienza per sentirsi rinviare alla precisazione delle conclusioni…fra tre anni, sapendo che nulla accadrà di nuovo nelle more del rinvio.
Insomma, le regole vanno riformate – ed in questo senso faticosamente avanza anche il Ministro del Lodo – ma le storture del sistema sono culturali. E’ proprio la cultura giudiziaria che va svecchiata, con tutti i suoi invisi clichè:
– Dum pendet rendet: non è vero, l’avvocato coscienzioso ha vergogna nell’annunciare al cliente che, comunque vada, è meglio mettersi l’anima in pace con i tempi. L’avvocato d’affari guarda con sospetto la propria giurisdizione e consiglia clausole arbitrali e perché no una governing law del rapporto di diritto straniero, migrando verso sistemi in cui l’esito del giudizio è predictable. Una definizione rapida dei giudizi alimenterebbe un circolo virtuoso di credibilità, costi e ricavi per tutti. La giustizia è tale solo se sostenuta dall’immediatezza della soluzione che, se non gradita, potrà essere contestata.
– Gli avvocati sono ignoranti: il numero disastrosamente elevato dei legali ne diluisce la qualità, com’è ovvio, ma dare per scontata l’incompetenza altrui – come spesso accade nel confronto con il Giudice, che aspetta la comparsa conclusionale per leggere il carteggio – è peccato capitale. Senza contare che il problema è a monte, le facoltà di giurisprudenza, in cui io insegno, sono diventate, per inefficienze del mercato del lavoro, autentiche succursali degli uffici di collocamento, specie nel meridione d’Italia dove i giovani sono orfani della speranza di un futuro migliore basato sul merito.
L’ascensore sociale è rotto ed il cinismo è la dottrina maggioritaria, poiché ormai l’orizzonte è solo quello del de minimis. V’è forse una riforma del processo civile che possa porre rimedio a questo? Evidentemente no. Il problema è culturale, di sistema paese: il processo civile in questo è lo specchio dell’attualità.
Tornando al versante tecnico, e per concludere, è stato avviato il processo telematico e la pec, è in fase di perfezionamento e lancio la legge delega sulla riforma dei riti civili. Quest’ultima è un’opera di disboscamento della selva di riti quanto mai necessaria, per estirpare regole particolari che hanno creato enclave normative – processi nel processo -; una pulizia delle incrostazioni avvicendatesi nel tempo. Occorre, infatti, avere certezze sui moduli processuali, sui tempi delle loro gestione e sul loro funzionamento. Sembrerà semplicistico, ma si tratta forse del passo più importante per la riforma della giustizia civile; ma anche di questo tema, al di là delle opinioni degli addetti ai lavori, non si parla a sufficienza ed in maniera informata. Mi riservo di ritornare sull’argomento.
Una maggiore attenzione ai sistemi di soluzione dei conflitti civili è sintomo di rispetto per le vicende dell’individuo, credo proprio che valga la pena alimentare un confronto informato e serio sul tema per creare condizioni di favore ed incoraggiare le iniziative in atto, forse anche correggerle, ma comunque condurle fino in fondo.
(Andrea Gemma)