Quando arrivo davanti al portone e leggo la targa “In-presa” mi si riaffaccia una domanda. Ho sentito parlare più volte di questo posto, ma perché ha questo nome? Il direttore generale, Stefano Giorgi, cerca di spiegarmelo con una frase usata da Emilia Vergani, l’assistente sociale che ha dato il via formalmente a questa realtà nel 1997 (anche se nella sostanza si era già partiti tre anni prima) e che è mancata proprio dieci anni fa. Al suo primo ragazzo avuto in affido disse: “Stai tranquillo, la tua ansia non mi manda in crisi; io sono salda qui, in un terreno più saldo di quello dove sei tu. Se ti attacchi, ti tiro dalla mia parte”. Tirare, afferrare in una presa. Ecco dunque l’origine del nome. Ma capirò di più quella frase una volta uscito da questa cooperativa sociale di Carate Brianza.



In principio la sede era altrove. Emilia, Stefano e Ian seguivano alcuni ragazzi delle medie inferiori che facevano fatica a scuola, magari anche a causa di situazioni personali difficili. La sfida era di far scoprire loro il gusto delle cose, dello studio, del significato della vita, attraverso il fare, il lavoro. Erano una quindicina di ragazzi. Oggi ce ne sono circa 350 in questa nuova sede, che in principio era un capannone ma che col tempo è cresciuta. Ci sono diverse aule, di quelle tradizionali che si vedono in ogni scuola, e quattro laboratori (due di cucina, uno elettrico e uno informatico).



Nei corridoi i ragazzi vanno spesso avanti e indietro, ma non stanno bighellonando. C’è un ordine e una compostezza sorprendente. In un laboratorio, per esempio, ci sono piccoli “chef” che si stanno cimentando a preparare le crocchette di patate: ognuno di loro ha il proprio spazio (due fornelli, un piano di lavoro e un lavabo) che viene tenuto e curato alla perfezione. Sono gli allievi del primo anno del corso di Istruzione e formazione professionale (Ifp) per diventare aiuto-cuoco. Hanno quasi tutti 14 anni, anche se ce n’è qualcuno più grandicello per via delle bocciature patite. Qui si preparano per sbarcare poi in una cucina vera, in un’impresa di ristorazione vera, per il loro stage.



Un destino che toccherà anche i ragazzi che seguono i corsi di formazione in alternanza scuola/lavoro. Si tratta dei casi più difficili, quelli che a scuola proprio non ce la fanno ad andare o a stare e che eppure qui riescono poi persino a trovare un posto di lavoro come elettricisti o nel settore della ristorazione. Inoltre qui si aiutano anche i ragazzi a studiare per finire le scuole medie o a fare orientamento o inserimento lavorativo.

Sembra qualcosa di incredibile: dei ragazzi cui pochi darebbero speranza, perché incapaci di frequentare una scuola o perché con una storia personale e famigliare difficile, riescono a trovare un lavoro e a farsi assumere. Uno – mi raccontano – di quelli dell’alternanza è riuscito persino, dopo essersi diplomato attraverso i corsi serali mentre lavorava, a iscriversi all’università. Certo, non sempre va a finire così bene, anzi. Delle centinaia di ragazzi che sono passati per In-presa alcuni non hanno avuto nessun miglioramento o addirittura ne sono usciti senza completare alcun percorso formativo. Mi vien da pensare che sia facile capire se si è avuto successo o meno con loro: basta vedere se alla fine sono riusciti a trovare un lavoro.

È però un criterio troppo semplice e riduttivo. Non c’è solo questo in ballo. E lo capisco durante il pranzo, che è stato preparato da dei ragazzi che avranno la possibilità di salpare per una settimana su una nave da crociera sulla quale terranno delle dimostrazioni culinarie. A tavola con me, oltre a insegnanti e tutor, ci sono anche dei ragazzi.

 

C’è Mor, ventunenne senegalese. Mi racconta di quanto sia contento dello stage che sta svolgendo da un tappezziere. È arrivato in Italia tre anni fa con tanta voglia di fare. E così si è iscritto all’Itis perché voleva fare l’elettricista. Ma la differenza di età con i compagni di classe e le difficoltà con la lingua lo spingevano a scegliere una strada diversa dalla scuola. Da marzo, finalmente, ha avuto questa opportunità, difficile da affrontare perché non corrispondente con il suo desiderio iniziale di sbocco professionale. Poi ad aprile è venuto a mancare suo padre. Ma Mor non è triste, anzi. Sorride quando parla di quello che fa, di come si sente seguito e considerato in azienda. E pensare che il suo datore di lavoro era sul punto di rifiutare l’ennesimo ragazzo senza formazione specifica e per di più extracomunitario. Ora invece si aprono prospettive di assunzione. Che soddisfazione! Gli occhi di Mor piaono illuminarsi quando ne parla.

 

La stessa luce che si vede nello sguardo di Genny, che frequenta il secondo anno di Ifp. È capace di spiegarmi il gusto che prova nel dare forma alla sua creatività mentre è ai fornelli (ogni tanto – è fiera nel dirlo – lavora nei weekend grazie ai contratti a chiamata) e persino a farmi capire cosa può c’entrare la lezione di italiano che stava seguendo poco prima con la cucina. Sì, perché sembra strano, ma questi ragazzi che – penso io – dovrebbero semplicemente imparare un mestiere, studiano anche italiano, inglese, scienze, matematica, diritto, storia, ecc. Insomma le materie di una normale scuola.

 

Il bello è che qui riescono a capire a cosa servono concretamente. Per di più sono loro a chiedere, per esempio, nozioni di matematica e scienze, perché quando sono in azienda a montare cavi e quadri elettrici ne hanno bisogno o perché per l’esame di fine corso gli viene commissionata (da parte di un’impresa) la costruzione di un modellino di automobile funzionante a pile di idrogeno o di un mini impianto eolico per la produzione di energia elettrica. Oppure, come mi spiega Genny, leggono e studiano dei libri e dei romanzi per usarli nella preparazione di piatti o dolci, come nel caso della torta dedicata ad Alice nel paese delle meraviglie. Ma la cosa più importante – mi dice ancora Genny – è che durante le lezioni in aula è arrivata a chiedersi cosa possa servire a lei come persona quello che le viene spiegato.

 

Quale che sia la risposta che si dà, mi riesce quasi difficile credere che Genny sia stata bocciata due volte, che la preside del liceo sociopsicopedagogico dov’era prima l’abbia spedita disperata all’In-presa, che si azzuffasse con le sue compagne di classe e che non ne volesse sapere proprio di studiare. È evidente: Genny è cambiata. Come Andrea, che ha una storia famigliare difficile alle spalle e il conseguente disagio a scuola. Il classico studente che fa casino in classe e non studia perché si annoia. Qui, invece, mentre compie il suo percorso di formazione, fa anche da vice al Professore quando insegna cucina nelle classi dei più piccoli.

Alla fine mi sembra proprio che più che ragazzi qui ci siano dei piccoli uomini, alle prese con le domande più serie e più profonde della loro vita, forse anche inconsapevolmente. Di certo in misura maggiore rispetto a molti dei loro coetanei. Facilitati anche da percorsi realmente personalizzati. Qui gli adulti sanno tutto di ogni singolo ragazzo, senza nemmeno il bisogno di consultare una scheda. E per ciascuno di loro cercano una strada su misura, anche se questo vuol dire pensare a faticosi tentativi e dispendiose eccezioni, che magari non portano a nulla: una vera e propria scommessa. Il tentativo – mi spiegano gli adulti – è accogliere, educare e cercare di far scoprire il significato di quel che si fa, non creare una scuola dove ci sia un clima tranquillo e adatto per poter tenere una lezione senza che gli studenti disturbino.

 

L’impressione, mentre sto per uscire da questo luogo, è che sia come una grande casa, una grande famiglia. E forse sta qui il segreto di chi ha fondato e di chi fa ora In-presa. Lo scopo, quello cui si guarda, non è trasformare un ragazzo o una ragazza in un lavoratore provetto, ma cercare di far emergere, dare ai giovani la possibilità di tirar fuori e di afferrare loro stessi il significato del loro essere uomini, di quello che sono e che fanno (che è decisamente un obiettivo più arduo). Scoprirli cambiati. Vederli essere solidi, vederli poggiare i piedi su un terreno saldo – come diceva Emilia – per iniziare a camminare con certezza incontro alla propria vita.