La lettera del direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli alla redazione del quotidiano è una bomba atomica. Vi si legge: “L’industria alla quale apparteniamo e la nostra professione stanno cambiando con velocità impressionante. In profondità. Di fronte a rivolgimenti epocali di questa natura, l’insieme degli accordi aziendali e delle prassi che hanno fin qui regolato i nostri rapporti sindacali non ha più senso. Questo ormai anacronistico impianto di regole, pensato nell’era del piombo e nella preistoria della prima repubblica, prima o poi cadrà. Con fragore e conseguenze imprevedibili sulle nostre ignare teste”.
E, più avanti: “Non è più accettabile che parte della redazione non lavori per il web o che si pretenda per questo una speciale remunerazione. Non è più accettabile che perduri la norma che prevede il consenso dell’interessato a ogni spostamento, a parità di mansione. Prima vengono le esigenze del giornale poi le pur legittime aspirazioni dei giornalisti. Non è più accettabile che i colleghi delle testate locali non possano scrivere per l’edizione nazionale (…). Non è più accettabile l’atteggiamento, di sufficienza e sospetto, con cui parte della redazione ha accolto l’affermazione e il successo della web tv. Non è più accettabile, e nemmeno possibile, che l’edizione Ipad non preveda il contributo di alcun giornalista professionista dell’edizione cartacea del Corriere della Sera. Non è più accettabile la riluttanza con la quale si accolgono programmi di formazione alle nuove tecnologie. Non è più accettabile, anzi è preoccupante, il muro che è stato eretto nei confronti del coinvolgimento di giovani colleghi. Non è più accettabile una visione così gretta e corporativa di una professione che ogni giorno fa le pulci, e giustamente, alle inefficienze e alle inadeguatezze di tutto il resto del mondo dell’impresa e del lavoro”.
Al termine della sua lettera De Bortoli avverte che “Se non vi sarà accordo, i patti integrativi verranno denunciati, con il mio assenso”. I giornalisti, in risposta, hanno proclamato due giorni di sciopero (altri 5 sono programmati) “per rispondere all’attacco che il Direttore ha mosso contro le tutele e le regole che garantiscono la libertà del loro lavoro e, di conseguenza, l’indipendenza dell’informazione che il giornale fornisce” e aggiungono: “La battaglia che i redattori del Corriere hanno intrapreso vuole riportare il giornale al suo ruolo leader attraverso un’informazione libera e autorevole che non può prescindere dalle garanzie per ciascun giornalista.
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Chi scrive deve poterlo fare senza pressioni, minacce, ricatti. Questo è l’impegno che offriamo ai lettori. Il Cdr e i giornalisti del Corriere della Sera chiedono che il Direttore riveda una posizione pregiudiziale che per la Redazione è irricevibile e torni a un confronto rispettoso dei rapporti sindacali”. Bene: qualcosa si muove. E si muove nel mondo dei giornali, il baluardo più indifferente alle esigenze aziendali, il sancta sanctorum dei privilegi, il peggior mondo per un giovane bravo che, prima dell’idiosincrasia delle aziende a premiare i migliori, deve fare i conti con l’avversione degli “arrivati” a riconoscergli il diritto di crescere.
Ha ragione De Bortoli: le regole che governano la professione sono vecchie, paludate, impresentabili: se applicate a una qualsiasi altra industria l’avrebbero già fatta fallire da tempo. Sono quelle regole, oltre alla predilezione degli editori per il dividendo politico rispetto a quello monetario, che hanno fatto dell’editoria il regno dell’immobilismo quasi vivesse in una bolla di diritti inattaccabili.
Di fronte agli stravolgimenti del mondo editoriale e alla necessità assoluta delle aziende di aumentare la produttività (attenzione: non si pensi alla produttività come l’obbligo di aumentare la produzione di articoli ma, semplicemente, nella richiesta di adattare un proprio articolo alla versione elettronica, che oggi un giornalista può rifiutarsi di fare) i giornalisti del Corriere si nascondono dietro il dito della libertà e dell’indipendenza e, addirittura, tirano in ballo “pressioni”, “minacce” che sono da respingere.
Facendo finta di non sapere che la libertà del giornalista è direttamente proporzionale alla dirittura della propria schiena e che questa libertà non può essere sancita da nessun accordo sindacale che, anzi, spesso dà alibi a chi vuole essere servo, di esserlo con la copertura del sindacato. I giornalisti continuano ad attribuire ad altri (gli accordi sindacali) il compito di renderli liberi, come se scrivere un articolo per l’iPad fosse un attacco alla loro indipendenza.
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Nemmeno la Fiom di Pomigliano sarebbe arrivata a tanto. In confronto a quello dei giornalisti quello dei metalmeccanici è un sindacato collaborativo. Un esempio dei lacci che non permette all’azienda di ottenere una maggiore produzione a costi inferiori e ai giovani di crescere è quello che impedisce ai redattori delle edizioni locali del Corriere della Sera di scrivere sul quotidiano nazionale.
Questi hanno firmato, al momento dell’assunzione, un contratto omnicomprensivo cioè non vengono pagati quando scrivono sull’edizione nazionale. La prassi sindacale ha impedito finora che un giornalista “locale” scrivesse sul “nazionale” accampando il fatto che non è giusto che un giornalista scriva senza essere pagato. Formalmente nulla di più condivisibile, praticamente è una barriera all’ingresso dei giornalisti più giovani. I giornalisti possono scrivere sul Corriere della Sera sono solo quelli che possono essere pagati cioè quelli che hanno firmato il contratto di assunzione prima di una quindicina d’anni fa, ovvero i più anziani, quelli che, se stessimo parlando di Università chiameremmo “baroni”.
Ecco: questo è solo un esempio delle incrostazioni che impediscono ai giovani di farsi avanti, di dimostrare ciò che valgono. Esattamente ciò che i giornalisti del Corriere invocano con parole accorate e toni lirici nei loro articoli quando si rivolgono ai lavoratori di altri settori economici. Il fatto che il tema della produttività, della meritocrazia, della innovazione sia entrata nel sancta sanctorum della borghesia illuminata meneghina e che questa abbia risposto con uno sciopero la dice lunga sul declino intellettuale e sulla freschezza di idee della borghesia italiana della quale i giornalisti dell’ex primo quotidiano italiano si sentono di interpretare il pensiero.
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