Un destino di violenza ha travolto Sarah Scazzi, la ragazza assassinata da uno zio e ritrovata morta, dopo angosciose ricerche. In queste settimane terribili i media hanno dato enorme spazio al dolore della madre e dei suoi familiari, chi con più rispetto, chi con meno. D’altro canto i parenti delle persone scomparse si sottopongono all’assalto dei cronisti non per ostentare la propria sofferenza, ma sperando di ottenere attraverso di essi un aiuto, un indizio, una segnalazione.



Oggi nessuno può sottrarsi alla pietà, o alla preghiera, di fronte allo sguardo perso di quella madre, alla ricerca di un qualsiasi segno di speranza. Domani, però, passata l’ondata emotiva, c’è da scommettere che riprenderanno fiato i commenti sui delitti commessi in ambito familiare. E’ una vera e propria strumentalizzazione che si inserisce nel più vasto coro dei demolitori di ogni tradizione e di ogni legame, quasi fossero questi la causa della violenza.



Alcuni anni fa si titolò che la cerchia familiare uccideva più della mafia perché i delitti in ambito domestico superavano quelli dei clan. Inganno, artifizio retorico, ovvietà, se non altro per il fatto che i nessi familiari – per fortuna – sono più diffusi di quelli criminali. Ma la famiglia oggi è la vittima del delitto, non la causa. E’ proprio la scomparsa dei legami forti in favore di quelli più superficiali, ad esempio limitati solo all’interesse sessuale o economico, ad essere l’origine dell’imbarbarimento dei rapporti umani.

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La violenza fa parte della natura dell’uomo, ma ci vuole qualcosa che sia più della natura per contenerla, domarla, convertirla. Anche nel mito precristiano, era divina la scintilla che ai primordi della storia fu rubata per portare la luce agli uomini.

 

Nel caso di Sarah, però, c’è un altro aspetto sul quale si deve riflettere. La morte della ragazza è stata data alla madre in diretta, durante una trasmissione televisiva. Nel teatro antico la morte non era mai rappresentata e non solo per esigenze tecniche, ma per un sacrale rispetto. Oggi, invece, la morte è sempre in scena.

La digitalizzazione dei media ha moltiplicato le reti, le fonti e gli strumenti di produzione, per cui c’è sempre un giornalista sul luogo del delitto, un microfono acceso sulle vittime e sui carnefici, una telecamera puntata su una scena di morte. Un tempo assistere in diretta ad un delitto era un evento eccezionale, un caso, un unicum. Si pensi alla vicenda del piccolo Alfredino Rampi, primo esempio di morte in diretta nella televisione italiana.

 

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Oggi la ripresa della morte – non in fiction, ma in real time – è la normalità. Ma la morte in diretta, la morte ostentata in scena è trattata come un puro fatto, un puro dato di cronaca. Non segue nessuna vera riflessione. Non ci si chiede mai il senso di ciò che si mostra. Al massimo se ne cerca un responsabile, ma quasi per esorcizzare, per lavarsi la coscienza.

La ricerca del colpevole, diceva già Baumann, è la suprema difesa dell’uomo moderno di fronte allo scacco che la morte pone. Rovesciate dai media, come un vortice di male, le notizie di reato si accumulano nelle nostre case e nelle coscienze senza che ne nasca mai una domanda su di sé e sul mondo che stiamo costruendo, o distruggendo.

La domanda sul senso sarebbe il primo segnale di quella favilla divina che cova in fondo a tutti gli animi. Invece senza, non resta che uno sguardo sgomento, come quello che abbiamo visto sui volti di tante madri afflitte dal dolore. “Scenderemo nel gorgo muti”, diceva Pavese.

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