Torni qualche volta di più dalle nostre parti, Gianni Credit. E, soprattutto, metta nero su bianco le sue impressioni. Abbiamo assoluto bisogno, noi del Nordest, auto-centrati fino al midollo, di sentirci raccontare da una voce terza: figlia di questa terra ma capace di coglierne i limiti. Una voce che non sia prigioniera di abusati stereotipi, come chi ci racconta da fuori. E che non sia vittima della sindrome da accerchiamento, come chi si racconta da dentro.



Alluvioni di parole si stanno sommando a quella vera che ha devastato mezzo Veneto. Come sempre: quest’area del paese fa notizia non per i concretissimi problemi che pone, ma per come li presenta. Sempre in chiave caricaturale. Le quote latte? Tradotte nel letame di Vancimuglio. La rivendicazione di autonomia e federalismo? Identificata con l’assalto al campanile di San Marco. La questione immigrati, in una regione dove convivono 170 diverse etnie? Liquidata con le battute di Gentilini.



C’è un nostro concorso di colpa in tutto questo, certamente. Siamo vittime di una singolare sindrome: convinti di essere i primi della classe per autocertificazione, incazzati col resto del mondo che non ce lo vuole riconoscere. Così ci attardiamo a protestare per quanto (poco) parlano di noi, senza preoccuparci della cosa principale: come.

Sta capitando di nuovo, con questa alluvione che dura ormai da Ognissanti. Sottovalutata inizialmente dalle cronache, è vero. Ma bisognerebbe ricordare che per un paio di giorni almeno c’è stata un’analoga sottovalutazione negli interventi, a causa di una carenza di informazioni: non dei media, ma dei centri cui spetta in questi casi l’azione.



I sindaci si sono trovati a lungo soli, e avrebbero sicuramente preferito più manodopera che titoli di giornale. Poi tutti hanno cominciato ad accorgersene: peccato, era meglio il silenzio. Perché l’alluvione di servizi giornalistici e televisivi che si è abbattuta sul Veneto ha obbedito a uno dei peggiori canoni dell’informazione mediatica di questi tempi di plastica: ondate di retorica e pennellate di colore.

E come vuole la regola, tra una manciata di giorni questa alluvione verbale sparirà, lasciando quella vera. Allora sarà il caso che i veneti si pongano una concretissima domanda: quante risorse vere ha lasciato sul terreno? Si sarebbe modificata la situazione anche di un solo euro se i media avessero sottaciuto l’evento?

L’amico e compagno di notizie Credit ricorda bene di quale diverso spessore fosse l’informazione, ai tempi del Gazzettino di Giorgio Lago, quello sì interprete della voce genuina del Nordest: un direttore non a caso veneto, ma che si era professionalmente formato fuori dal Veneto, a Milano. E chi scrive ha avuto il suo battesimo professionale, qualche decennio fa, con l’alluvione del 1966: quando il giornalismo era meno panna montata e più caffeina. Rileggersi Montanelli su Venezia per credere.

 

Un’ultima annotazione: ha ragione Credit a suggerire di guardare sotto il pelo dell’acqua, per capire cosa si sta politicamente muovendo nell’inquieto Nordest, preludio a un’evoluzione (involuzione?) di carattere più ampio. Ma difficilmente assimilabile a una Lega formato Csu bavarese. Perché la Baviera è stata per un millennio un regno con una propria specifica identità, mentre la Padania è un patchwork artificiale prodotto dall’insipienza della vecchia politica italiana. E perché la Csu è una realtà saldamente federata con la Cdu tedesca, mentre la Lega è un sindacato del territorio che si nutre di un’identità autonoma, in contrapposizione al resto del sistema: modello che sta determinando nel Mezzogiorno un analogo percorso. Lo specchio, a ben vedere, della macroscopica incapacità dei partiti attuali di esprimere una sintesi nazionale. Preludio, a 150 anni dall’unità d’Italia, non di una festa ma di un funerale.