Le alluvioni non finiscono mai: dopo la piena d’acqua, ecco anche stavolta quella delle parole a nastro, delle promesse tradite, delle polemiche feroci. Poi calerà il silenzio, e allora comincerà il brutto.
Il Veneto è ancora nella fase uno, ma già è investito in pieno dalla due. Purtroppo per lui, arriverà pure la tre. Il maltempo delle scorse ore, e quello annunciato delle prossime, probabilmente non provocherà nuovi disastri, ma di sicuro peggiorerà quelli esistenti. E intanto “gli aiuti al Veneto perdono la strada”, titola non una qualche testata baluardo dell’ultralocalismo, ma Il Sole 24 Ore.
Perché è vero che Roma ha stanziato pronta cassa 300 milioni. Ma è altrettanto vero che per la parte legata alla sospensione degli adempimenti fiscali si è scelta una strada diversa rispetto al passato: ieri, vedi l’Abruzzo, bastava abitare in uno dei Comuni danneggiati per ottenerla; adesso ogni singolo interessato, imprenditore o contadino o semplice residente, deve richiedere un aiuto individuale sulla base di una procedura che chiama in causa Comune, Regione e ministero dell’Economia.
Un occhio al calendario: oggi è il 18 novembre, già l’altro ieri scadevano i versamenti di contributi, ritenute e Iva, tra 12-giorni-12 scade il termine per pagare il secondo acconto di Irpef, Ires e Irap; che, giusto per chiarezza, vuol dire il 60%. Morale, intanto pagate e dopo si vedrà. Una mostruosità che si somma a quella di migliaia di persone a cui enti pubblici e soggetti privati, assicurazioni in testa, chiedono di produrre le pezze d’appoggio dei danni subìti. Finite a mollo nell’alluvione. Peggio per gli alluvionati: invece di portare in salvo i macchinari, i beni di famiglia, gli elettrodomestici, le bestie, i ricordi, dovevano scattare loro una foto e fare l’inventario.
Ma che razza d’Italia. Aveva ragione da vendere Vittorio Meneghello, sindaco di Bovolenta, una delle località padovane più colpite, a supplicare il presidente Napolitano, durante la sua visita in Veneto, di concedergli una sola cosa: “Ci aiuti a levarci di torno la burocrazia”. La sua resterà una speranza negata, come tante altre. Arriveranno un po’ di soldi, si farà un po’ di manfrina, poi l’attenzione rifluirà nell’oblìo assieme all’acqua che si ritira, e ciascuno dovrà sfangarsela da solo.
Peggio: non si farà nulla per prevenire, e così si metterà già in cantiere un’altra catastrofe. Resteranno solo a verbale le nette parole pronunciate da Luigi D’Alpaos, docente di idrodinamica all’università di Padova, che dopo la disastrosa alluvione del 1966 fece parte di una commissione d’indagine sul Veneto. Martedì scorso, alla commissione Ambiente del Consiglio regionale, ha elencato i tre problemi di fondo: insufficiente portata idraulica di tutti i grandi fiumi veneti, precarietà della rete idrica minore dei canali e degli scoli, urbanizzazione massiccia e incontrollata del territorio.
Sottolineature fatte già allora, 44 anni fa, e rimaste lettera morta. L’alluvione di questi giorni? “Solo il frutto inevitabile di 40 anni di politiche sbagliate e una sistematica incomunicabilità tra università e istituzioni territoriali”, ha chiarito D’Alpaos. Arriveranno dei soldi alle persone colpite, e saranno comunque briciole. Ma ci sarà qualcuno che pagherà per questi reati di omissione? No. Se ne farà carico l’anonima anziana veneta che prende 350 euro mensili di pensione, ma che l’altro ieri ha fatto sapere di volerne versare 20 ogni mese per gli alluvionati. Grazie, signora, che ci aiuta ancora ad avere fede in questa Italia piena di fango.